Sentenza 234/2020 della Corte Costituzionale: un messaggio negativo per giovani e meno giovani.

Una doccia fredda per chi per tutta una carriera lavorativa ha pensato che impegno, creatività, tenacia, raggiungimento di risultati tangibili fossero la base del progresso di individui, aziende, società.

Michele Carugi 

Consigliere ALDAI Federmanager 
La sentenza della Corte Costituzionale 234/2020 che ha respinto le istanze di incostituzionalità relative alla riduzione della perequazione nel triennio 2018-2021 per le pensioni eccedenti il valore di tre volte il minimo e, parzialmente, quelle relative al contributo di solidarietà stabilito sulle pensioni di importo superiore a 100.000 € lordi annui per il quinquennio 2018-2023 era largamente attesa dai pensionati con assegni elevati, ormai abituati da decenni a vedersi decurtare le pensioni in termini reali (attraverso la non perequazione) e anche in termini nominali, attraverso vari prelievi succedutisi negli anni, gentilmente sempre dedicati solo ai pensionati.

Pur se la speranza che “ci sia bene un giudice a Berlino” sia l’ultima a morire, credo che nessuno si aspettasse che la Consulta dichiarasse finalmente che dopo 23 anni di tagli e tagliuzzi (il primo blocco sulle pensioni più alte fu del 1997) fosse ora di piantarla; troppo bene l’opinione pubblica è stata orientata a deprecare i pensionati più ricchi, troppa acqua fanno i bilanci dello Stato, troppa assistenza eroga l’INPS facendola gravare sui propri bilanci e la Consulta, alla fine, è organica al sistema e di quel che il sistema vuole tiene conto.

Al netto però dei giudizi, quello che lascia un attimo stupiti sono i contenuti delle “considerazioni in diritto” che la Consulta ha messo per scritto e che, se ben lette, sono messaggi molto chiari a chi si sia illuso che il sistema pensionistico italiano potesse più o meno lentamente traghettare verso un sistema meritocratico ove le prestazioni pensionistiche siano commisurate ai contributi versati e le pensioni troppo basse siano sussidiate con integrazioni finanziate dalla fiscalità generale.
Questa idea, che dovrebbe essere per giovani di belle prospettive uno dei fattori incentivanti a cercare di concretizzarle qui e non in altre nazioni, esce con le ossa rotte dalla lettura delle suddette considerazioni.
La Consulta, infatti, sancisce senza lasciare adito a dubbi, che i trattamenti pensionistici rientrano nella disponibilità arbitraria del legislatore il quale può decidere di disporne tenendo conto delle proprie esigenze di bilancio (paragrafo 4 dell’articolo 15.2 della sentenza) per finanziare, per esempio, una quota 100 di turno (paragrafo 3 dell’Art. 15.4.3) e senza dover neppure tenere conto dei principi di universalità dell’imposizione tributaria (paragrafo 3 art. 16.1); sarà sufficiente che il legislatore di turno abbia l’accortezza di precisare che il maltolto venga destinato a qualche  categoria di pensioni da assistere o addirittura genericamente accantonato in un’apposita voce dello stato patrimoniale (paragrafo 3 art.16.4)

Vero è che la Consulta si è ritenuta in dovere di precisare che il legislatore non deve valicare i principi di ragionevolezza e di proporzionalità e quindi non deve applicare le sue vessazioni a tempo indeterminato, però qui i giudici assomigliano al bambino che, dopo essersi ingoiato un barattolo di Nutella, alla mamma che gli dice basta, risponde: “sto mangiando solo un cucchiaino”.
Infatti, focalizzandosi su un solo provvedimento alla volta, la Consulta ha gioco facile nell’affermare che esso ha natura temporanea (e quante storie ‘sti pensionati!) e anzi, i giudici si fanno pure belli nel tirare le orecchie a questo governo perché pretende il contributo di solidarietà per 5 anni anziché per i soliti 3.
Peccato che, a botte di 3 anni alla volta, le pensioni più alte non abbiano perequazione praticamente dal 1997, ma da quest’orecchio la Consulta è totalmente sorda e infatti non ha preso in alcun considerazione l’opinione espressa da FEDERSPEV (art. 11) che ha sottoposto ai giudici la cronistoria delle norme penalizzanti dal 2000 a oggi e anzi, all’art. 15.4.2 ha proprio stabilito che “ogni misura di blocco o limitazione della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici non può che essere scrutinata nella sua singolarità”.
Chiaro? Una legge ogni tre anni e la perequazione la si può ridurre per sempre.

Dulcis in fundo, la Consulta ha acquistato a scatola chiusa la generica e falsa affermazione che tutte le pensioni retributive sono vantaggiose rispetto a quelle contributive  (paragrafo 2 dell’art. 17.2); qui possiamo forse dare ai giudici il beneficio dell’ignoranza, cioè il non sapere che questo non è assolutamente vero per tutte le pensioni retributive, che vi sono un grande numero di pensionati ai quali INPS ha precluso l’accesso al calcolo contributivo perché più vantaggioso e che, guarda caso, le pensioni più favorite dal calcolo retributivo sono notoriamente quelle medie e basse, cioè proprio quello che vengono di norma esentate o poco colpite dai tagli.
Ora, non dico che i giudici debbano per forza divenire esperti di previdenza, però un’infarinatura della materia sulla quale giudicano potrebbero farsela.

È però leggendo l’art. 18.9 che si gela il sangue di chi per tutta una carriera lavorativa ha pensato che l’impegno, la creatività, la tenacia, il raggiungimento di risultati tangibili non solo fossero la base del progresso di individui, aziende, società, ma che essi dovessero anche essere retribuiti adeguatamente sia durante l’attività che attraverso una pensione commisurata.
Queste sono le basi mancando le quali un individuo con potenziale decide senza indugio di andare altrove a mettere a frutto le proprie capacità, impoverendo di conseguenza la nazione nella quale viviamo. Bene, a questa base la Consulta dedica alcune righe esiziali: i destinatari dei tagli sono definiti (citando una precedente sentenza) come “una categoria di soggetti che, dati gli alti livelli pensionistici raggiunti, ha evidentemente beneficiato di una costante presenza nel mercato del lavoro e della mancanza di qualsivoglia tetto contributivo”.
Avere lavorato senza interruzione per moltissimi anni, evidentemente con merito e successo, assumendosi responsabilità e rischi, versando contributi anche enormi, (data l’assenza di tetti fino al 1995), non è una meritevole attività che ha certamente dato un grande contributo al progresso della nazione, ma sembrerebbe diventare un “beneficio”, forse anche usurpato.

Di peggio non si poteva fare nel mandare un messaggio negativo non solo a chi quelle carriere ha fatto e quei contributi ha versato, ma soprattutto a chi si affaccia mondo del lavoro e si riprometteva di farlo.

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