La nuova perequazione delle pensioni: pensata male e applicata peggio

Con la legge di bilancio 2023 si mette in atto un’azione redistributiva che anziché colpire tutti i redditi globalmente elevati per intervenire a favore delle pensioni integrate al minimo, colpisce solo i redditi pensionistici individuali, ignorando ogni altro reddito e dunque anche quelli globali personali

Mino Schianchi

Vicepresidente ALDAI-Federmanager
Dal 1° gennaio 2023, e per il prossimo biennio (2023 – 2024), non opereranno più i 3 scaglioni  di rivalutazione delle pensioni: + 100 % per gli importi fino a 4 volte il minimo INPS, + 90% per gli importi tra 4 e 5 volte il minimo e + 75% per gli importi oltre le 5 volte il minimo (criteri ripresi dalla legge di bilancio 234/2021 del Governo Draghi sulla falsariga della legge 388/2000), per ritornare ai ben più penalizzanti ed ingiusti criteri introdotti dal Governo Letta con legge 147/2013, secondo cui la rivalutazione avveniva secondo una unica percentuale, decrescente rispetto al valore complessivo dell’assegno e sull’intera misura di una singola pensione.

Con la manovra per il 2023 viene quindi ripristinata e rafforzata la deindicizzazione per fasce, cioè con adeguamento all’inflazione sugli interi importi lordi: al 100% fino a quattro volte il minimo, 85% fino a 5 volte, 53% fino a 6 volte, 47% fino a 8 volte, 37% fino a 10 volte, 32% oltre. 

Sugli importi netti, data la progressività dell’Irpef, la riduzione del potere di acquisto è ancora più forte.

Il meccanismo di rivalutazione individuato, nonché la grossolanità dei tagli alla rivalutazione stessa, fanno pensare che il legislatore punti più a fare cassa con le pensioni medio-alte piuttosto che a rispettare la promessa di difenderle dall’inflazione. Il Governo Letta nel 2013 si era fermato alla rivalutazione solo del 40% dell’incremento spettante, oggi siamo al 32% e per un biennio, ma ai tempi del Governo Letta la svalutazione era modesta e le discriminazioni meno laceranti, oggi galoppa oltre il 10% e si prevede ancora molto elevata nel 2023 e nel 2024.

Un’ulteriore ma non meno importante perplessità riguardante il provvedimento è collegata alla natura e condizione di pensionato.  Quando si va in pensione cambia profondamente, e in misura crescente col tempo, la capacità di reagire agli eventi economici avversi, come l’inflazione. Il pensionato non ha la possibilità di aumentare le proprie entrate, come può accadere agli autonomi, o contrattare i recuperi dell’inflazione, come può accadere ai dipendenti. Nella decisione sul pensionamento entra dunque anche la valutazione del potere di acquisto, atteso costante fino alla morte, proprio in virtù dell’indicizzazione.

Intervenire sui pensionati riducendone il potere di acquisto, oltre che una disparità di trattamento rispetto agli altri redditi, è anche uno spiazzamento economico profondo, tanto più pesante quanto più alta è l’inflazione, quanto più si abbassano le percentuali di adeguamento al crescere del reddito (oggi fino al 32%, cioè con perdita di potere di acquisto oltre i due terzi dell’inflazione).

A fine 2024 la perequazione delle pensioni medio-alte risulterà azzerata, o fortemente limitata, in 13 degli ultimi 17 anni (76,47% del periodo), calpestando fondamentali principi costituzionali e decine di moniti della Corte Costituzionale, facendo perdere alle pensioni in questione almeno il 20% del valore legittimamente maturato e consolidato. 

La concatenazione pluriennale delle riduzioni (che pare prospettare una deindicizzazione ormai strutturale) sembrano delineare ragioni di illegittimità costituzionale di questa misura volta a fare cassa. (circa 4 miliardi nel 2023, meno nel 2024 se l’inflazione scenderà dall’attuale 10 per cento).

Le pensioni sopra i 2.100 euro continuano a perdere potere d’acquisto. Si tratta di redditi di quella parte di popolazione su cui insiste maggiormente anche il sistema fiscale (come sottolinea l’ultimo report di Itinerari Previdenziali). E comunque si tratta di pensioni già in essere, su cui da anni i Governi intervengono con una certa disinvoltura (in teoria, interventi di questo tipo dovrebbero essere previsti solo come estrema ratio).

La Corte Costituzionale, con ripetute argomentazioni, ha ribadito che la frequente reiterazione di norme volte a paralizzare il meccanismo perequativo, intacca i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su parametri costituzionali quali la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso come retribuzione differita.

Naturalmente è legittimo che i Governi mirino all’aumento delle pensioni minime ma le risorse devono derivare dalla fiscalità generale e non dai tagli delle indicizzazioni delle pensioni medio-alte. Va sottolineato che nella gestione del bilancio pubblico non esiste un collegamento doveroso – da taluni delineato – tra finanziamenti e spese interne a una macro-voce di spesa come quella previdenziale e assistenziale. A riprova, nella maggior parte degli anni passati i notevoli deficit della gestione previdenziale e assistenziale sono stati coperti con la fiscalità generale, cioè con un mix di provvedimenti di spesa e di entrata, oltre che con indebitamento.

Con la legge di bilancio 2023 si mette in atto un’azione redistributiva che anziché colpire tutti i redditi personali globalmente elevati per intervenire a favore delle pensioni integrate al minimo, si colpisce invece una specifica fattispecie, il reddito pensionistico individuale, ignorando ogni altro reddito e dunque anche quello globale personale.  Pertanto questa tassazione impropria, che rappresenta una vera “patrimoniale” sulle pensioni medio-alte, non possiede neppure i requisiti richiesti al prelievo tributario legittimo (art. 53 della Costituzione), vale a dire la generalità del prelievo e la proporzionalità dello stesso.

Dobbiamo prendere atto, con amarezza e inquietudine, che ormai le pensioni medio alte costituiscono il “bancomat” sempre aperto nel quale i Governi di turno allungano le mani per attingere risorse per far fronte a tutte le situazioni critiche della spesa pubblica. Una spesa pubblica che, stante l’alto debito del nostro bilancio, è strutturalmente in condizione critica.

Questa misura è ancora più iniqua per i dirigenti in quanto la categoria fiscale cui essi appartengono (mediamente oltre 55.000 € lordi anno di reddito), pur rappresentando meno del 5% di tutti i contribuenti italiani, sostiene quasi il 40% del gettito IRPEF totale del Paese. 
Non abbiamo sentito una sola voce di protesta da parte delle forze politiche per il fatto che si continua a fare la “così detta” giustizia distributiva adottando misure di ingiustizia fiscale, nelle forme più disparate.

Le forze politiche, che siano al governo o all’opposizione, sono soggiogate ormai dall’andamento dei consensi (democrazia elettorale), inseguono il plauso della piazza.  E tutto questo prevale rispetto ai principi di solidarietà e uguaglianza che sono valori fondanti della nostra Costituzione. 

Per i partiti di governo, fatti i conti, quelli più colpiti da questi provvedimenti sono una minoranza che incide poco, numericamente, ai fini elettorali. Anche i partiti che avrebbero potuto opporsi a questa logica perversa, e difendere questi pensionati, hanno fatto un freddo calcolo di convenienza elettorale: ci guadagnano di più se si astengono da una precisa presa di posizione al riguardo.

I nostri scritti, i nostri interventi, i nostri comunicati stampa finiscono per essere “prediche inutili”; sono inutili tutte le cose che diciamo, se non le possiamo accompagnare con azioni solide che abbiano una qualche incisività.  

Forse è arrivato il momento di adottare decisioni e azioni che abbiano qualche rilievo nei luoghi dove si decidono finanziamenti, investimenti, ed in generale la politica economica del nostro Paese.

A parere di chi scrive sarebbe opportuno che CIDA e Federmanager decidessero il sostegno di  ricorsi “pilota” dinanzi alla Corte Costituzionale, auspicando  una preventiva massiccia condivisione della magistratura ordinaria e contabile. La ragione è evidente: non reagire per le vie giudiziarie apparirebbe come supina acquiescenza rispetto a provvedimenti che sono iniqui e discriminatori:
  1. iniqui perché colpiscono una categoria che ha già subito numerosi provvedimenti riduttivi dei propri trattamenti, da lunghi anni, con particolare accentuazione a partire dal 2008;
  2. discriminatori perché dinanzi all’esigenza di acquisire risorse per migliorare i redditi dei più svantaggiati, si mettono ancora una volta le mani nelle tasche solo dei pensionati. 
Intanto dobbiamo prendere atto che non basteranno le iniziative sul piano giudiziario. Queste non fermeranno gli attacchi contro le pensioni medio-alte. Attacchi che sono il frutto del clima astioso creato ad arte contro i titolari di pensioni medio-alte, segnalati per anni come appartenenti alla casta dei “privilegiati”. E sono quelli che hanno il solo “demerito” di avere servito, con le maggiori responsabilità, imprese pubbliche e privati, aver rivestito i ruoli più impegnativi nelle istituzioni pubbliche, pagando puntualmente alti contributi e le imposte con le aliquote più elevate.   

Occorre mettere in campo una intensa azione di comunicazione che evidenzi i rischi che corrono le future generazioni alle quali si fa credere che una collettività può continuare a vivere e svilupparsi senza la valorizzazione del merito.

Bisogna far capire che le situazioni di disagio, di povertà e di disuguaglianza di cui soffre il Paese vanno attribuite al lavoro in nero a cui si fa ampiamente ricorso in molta parte delle attività produttive.
 
Molte pensioni oggi sono basse perché bassa è stata la loro contribuzione. Bisogna continuare a ripetere, come se fosse la recita di un rosario, che la frode fiscale, la frode contributiva, la corruzione succhiano sangue vivo alle risorse del Paese e ne impediscono lo sviluppo.
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