Riforma delle Pensioni: la perequazione dimenticata

Il vertice fra Governo e Sindacati del 31 maggio 2023 non scioglie il nodo della perequazione delle pensioni

Foto di tuku da Pixabay

Mino Schianchi

Vicepresidente ALDAI-Federmanager
Nel vertice fra Governo e sindacati del 31 maggio scorso, che ha aperto una stagione di confronto sui temi fondamentali dell’economia si è parlato anche di Riforma Pensioni, in vista della manovra 2024. 

Il primo tavolo di confronto sarà sugli anticipi pensionistici come ha annunciato la premier. Significa parlare di Quota 103, Opzione Donna, APE social.  Ma nessun accenno relativo a un riesame del brutale taglio della alle pensioni avvenuto con il peggioramento del meccanismo di perequazione per il biennio 2023-2024.

Contro questo ingiusto taglio stabilito nella Legge di Bilancio 2023, le Organizzazioni rappresentative dei pensionati della Dirigenza Pubblica e Privata stanno presentando ricorsi presso i Tribunali Ordinari e le Corti dei Conti regionali, nella speranza che questi tribunali accolgano i ricorsi, o li rimettano alla Corte Costituzionale perché decida l’illegittimità costituzionale delle norme impugnate. 

Indipendentemente dai risultati che si otterranno dalle azioni giudiziarie, appare chiaro che le continue sottrazioni di reddito ai pensionati non hanno risolto e non risolveranno i problemi della finanza pubblica. Perché l’insufficienza delle risorse non può essere colmata non adeguando le pensioni al costo della vita. Ci sono altri modi per recuperare risorse, senza scaricare sui pensionati le difficoltà del bilancio previdenziale e, soprattutto, le criticità della finanza pubblica. 

Il confronto complessivo sulla revisione del sistema pensionistico sembra rimandato a un secondo momento e a tale proposito, in prospettiva, sarà necessario arrivare a una sua revisione che garantisca sul lungo periodo la sostenibilità dei conti pubblici, l’adeguatezza nel tempo dei trattamenti pensionistici in essere e anche di quelli delle future generazioni.

Stravolgimento del sistema pensionistico

Uno sguardo alla spesa pensionistica è utile per farsi un’idea sul come affrontare una nuova riforma delle pensioni.

Nel 2021 il nostro Paese ha destinato a pensioni, sanità e assistenza 517,753 miliardi: la spesa per prestazioni sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale. A gravare sui conti italiani sono, soprattutto le prestazioni assistenziali che hanno attinto dalla fiscalità generale oltre 144,215 miliardi di euro.

L’incidenza della spesa previdenziale sul PIL è passata dal 15,2% del 2018 al 16,2% stimato per il 2024. E non andrà molto meglio nei prossimi anni: nel DEF 2023 si è stimato una spesa pensionistica di 350,9 miliardi per il 2025 e di 361,8 miliardi per il 2026.

Da oltre 20 anni stiamo assistendo a una deformazione del sistema pensionistico italiano che, a mano a mano, trasferisce risorse dalla previdenza all’assistenza. Con le pensioni frutto di una vita di lavoro si sta finanziando la spesa assistenziale che, altrimenti, non si saprebbe come sostenere. Prima di mettere le mani sugli assegni pensionistici o ragionare su ipotesi di Riforma del settore, sarebbe bene, separare i conti della previdenza da quelli dell’assistenza. Sarebbe anche necessario che la politica destinasse maggiore attenzione a quella parte di cittadini che evadono o eludono il pagamento delle imposte e dei contributi e, quindi, non concorrono al mantenimento delle spese pubbliche, in proporzione alle loro capacità contributive, secondo il principio costituzionale.

Affinché il sistema pensionistico possa mantenere il delicato equilibrio in atto, nella prossima Riforma, sarà indispensabile tenere presente che le nostre età effettive di pensionamento sono attualmente tra le più basse d’Europa (circa 63,3 anni l’età effettiva in Italia contro i 65 della media europea). Pertanto occorrerà intervenire sull’invecchiamento attivo dei lavoratori, adottando misure volte a favorire un’adeguata permanenza sul lavoro delle fasce anziane della popolazione.

Pensioni e demografia   

L’Italia soffre di un significativo calo demografico accompagnato dall’innalzamento della aspettativa di vita: in sintesi, meno giovani e più anziani. Il Presidente dell’Inps, recentemente, aveva evidenziato che il dato sulle nuove nascite nel 2022 (392.698) rappresenta un numero molto pericoloso per la sostenibilità delle pensioni.

Ovviamente, per assicurare nel futuro l’equilibrio del rapporto tra occupati e pensionati, si dovrebbero evitare politiche che, da una parte, favoriscano l’aumento dei pensionati anzitempo e, dall’altra, non incidano positivamente sull’aumento dell’occupazione.

Nonostante il vistoso trend di invecchiamento che interessa la popolazione italiana, i dati Eurostat confermano che l’occupazione in Italia continua a caratterizzarsi, nel confronto con gli altri Paesi europei, per una scarsa percentuale di occupazione dei lavoratori senior. Secondo i dati Eurostat 2021, il nostro Paese è infatti agli ultimi posti per occupazione globale, distante 10 punti percentuali dalla media europea (58,2% l’Italia e 68,4% la media UE a 27 Paesi),
L’occupazione delle persone senior è un tema spesso trascurato nel dibattito pubblico, che preferisce concentrarsi sul versante degli incentivi alla flessibilità in uscita. L’active ageing meriterebbe invece maggiore attenzione, sia per l’inesorabilità delle tendenze demografiche in corso, sia perché è ben distante da una soluzione malgrado i miglioramenti registrati negli ultimi anni.

Occorre prolungare la durata della contribuzione con politiche atte a stimolare l’occupazione dei giovani e delle donne, riqualificare i disoccupati, contrastare il lavoro sommerso, e, soprattutto, aumentare l’età effettiva di pensionamento che, a causa delle tante forme di anticipazione consentite, è rimasta inferiore a 65 anni per quasi il 60 per cento delle pensioni liquidate ai dipendenti del settore privato nei primi nove mesi del 2022.
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