Le gravi dimenticanze del governo giallo-verde

Nonostante i nove mesi di preparazione, un travagliato contratto di governo e sei mesi di sofferenza sui mercati finanziari, la manovra del governo si è completamente dimenticata di risolvere i veri nodi del Paese: la lotta all’evasione fiscale, gli interventi sulla “casta”, riducendo ai minimi termini la platea interessata alla flat tax e indebitando il Paese per aumentare ancora l’assistenzialismo a favore dei “furbi”, dimostrando politica di parte a fini elettorali. Invece di creare condizioni per le pari opportunità e la crescita di tutti, la manovra aumenta l'ingerenza dello Stato alimentando le tensioni sociali.

Guglielmo Gandino 

Vice Presidente Nazionale ASEM (Associazione Assistenza Sanitaria Integrativa ENEL) e socio Federmanager
3.1.2019 - La Manovra varata dal Parlamento a fine anno presenta molte “dimenticanze”. Cercheremo di analizzarle con occhio critico e di valutarne le ricadute.

Aspetti Fiscali

Senza voler essere polemico, mi sembra che due pilastri basilari siano quasi del tutto assenti. Il primo è la mancanza di qualsiasi riferimento serio alla “lotta all’evasione fiscale”. Può darsi che fra le righe della manovra compaia pure la magica parolina “evasione”, ma non certo nel contesto di un piano organico contro gli evasori. Al di là delle parole e di roboanti proclami, l’Italia continua ad essere il Paese con un’evasione fiscale da terzo mondo, con ormai oltre 7 punti di PIL di “tax gap”, che in soldoni significa circa 120 miliardi di mancato gettito (più o meno quattro Finanziarie) e 350 miliardi di imponibile sommerso. Peccato perché, con 120 miliardi, si potrebbero realizzare molti più investimenti pubblici ed altri interventi a favore della crescita, e con l’emersione di 350 miliardi il nostro rapporto debito/PIL si assesterebbe poco sopra al 110%, invece del 132% di oggi.

Flat Tax

Il secondo è l’accantonamento di fatto della “FLAT TAX”, cavallo di battaglia della destra. È pur vero che essa è stata introdotta al 15% nel 2019 per gli autonomi con ricavi entro i 65.000 euro, che dal 2020 si eleverà al 20% per chi si colloca tra 65 e 100.000 euro. Ed è pur vero che viene reiterata la promessa dell’introduzione delle due aliquote nel 2021, cosa che a mio parere non vedremo mai! Nel frattempo intanto si crea disparità tra autonomi e lavoratori dipendenti a parità di reddito e non si va incontro alla gran massa di contribuenti che pagano l’Irpef anche per chi non la paga. Mi riferisco ai lavoratori dipendenti ed ai pensionati che da soli contribuiscono al 94% (60% + 34%) del gettito Irpef di 172 miliardi. È una vergogna nazionale di cui il governo giallo-verde sembra non accorgersi! Infatti non soltanto i pensionati italiani già pagano il doppio o anche il triplo delle imposte pagate (senza limiti di reddito) dai pensionati francesi o tedeschi, ma in nome della tanto sbandierata “equità”, sembra sia ormai diventata prassi corrente trattare in maniera differente le varie categorie di contribuenti, a parità di reddito. Succede così che il dirigente d’azienda in attività con un reddito imponibile di 300.000 euro pagherà il 43% di Irpef sullo scaglione oltre i 75.000 euro (pari a 96.750 euro), mentre il suo collega pensionato (con pensione di 300.000 euro lordi basati su “contributi effettivamente pagati” e non figurativi) pagherà per cinque anni, oltre al 43% di Irpef sopra i 75.000 euro, anche un Contributo di Solidarietà obbligatorio del 15% fra 100 e 130.000, del 25% fra 130 e 200.000, del 30% fra 200 e 300.000, e cioè in fin dei conti non 96.750 euro ma 148.750 euro pari al 66,1% anziché il 43% sullo scaglione 75-300.000 euro.

Interventi sulla “Casta”

Dopo la discutibile revisione dei “vitalizi” di Camera e Senato, mi sarei aspettato di constatare che si era finalmente messo mano alle molte “indecenze” che hanno caratterizzato in questi decenni i trattamenti economici della “casta”. E invece no, molte “dimenticanze” sono purtroppo intervenute anche in questo campo. Andando ad incidere sulle pensioni solo oltre i 100.000 euro lordi, e quindi non distinguendo più con il “ricalcolo” fra pensioni supportate da contributi pagati e pensioni basate su contributi “figurativi” regalati, mi sembra - se non mi è sfuggito qualcosa - che si sia abbandonata l’idea di ricalcolare le pensioni di migliaia ex-sindacalisti calcolate a suo tempo sulla base del D.Lgs. Treu n. 564/1996. Ma è molto peggio il fatto che si siano anche dimenticati di introdurre il “divieto di cumulo” di più vitalizi. Infatti ci sono personaggi che - essendo stati consiglieri regionali, parlamentari italiani, parlamentari europei e quant’altro - si portano a casa tre/quattro vitalizi ogni mese per un totale di 20-30.000 euro lordi mensili. È un’indecenza, e tutti ne convengono. Ma il divieto di cumulo non viene introdotto per legge. Qualcuno (bontà sua) ha optato per il vitalizio più alto rinunciando agli altri, ma molti altri non l’hanno fatto. Infine il governo giallo-verde si è colpevolmente dimenticato di abolire le “doppie pensioni” dei parlamentari, i cui contributi per almeno 2/3 sono tuttora pagati dalla comunità. Capisco che molti parlamentari ex-disoccupati non siano interessati al problema, che interessa invece tutti coloro che - avendo avuto un’attività da dirigenti, da giornalisti, da funzionari pubblici - ed essendo poi diventati parlamentari in regime di “aspettativa”, si fanno pagare dall’ente previdenziale di riferimento (INPS, INPGI, ecc.) i 2/3 dei contributi previdenziali sulla base dell’ultima remunerazione percepita, per tutto il tempo in cui resteranno parlamentari. Così a fine carriera avranno il vitalizio (purridimensionato) ed una pensione aggiuntiva per un’attività che non hanno svolto. Vorrei che il vice-premier Di Maio, che si agita per ridurre lo stipendio dei parlamentari, capisse che lo stesso può anche essere ritenuto equo se effettivamente essi svolgono la loro funzione con impegno ed assiduità, mentre invece le “dimenticanze” sopra accennate vanno corrette con urgenza, e se dopo anni che se ne discute esse continuano ad esistere significa che non si vuole intervenire, sebbene il loro costo sia rilevante per la comunità.

Italia = Paese dell’assistenza

È triste constatare inoltre come - indipendentemente dalle forze politiche al potere - l’Italia continui ad essere uno dei paesi più assistiti d’Europa. La concezione di “crescita” si basa sul principio che si devono: (1) creare opportunità di lavoro anche tramite incentivi alle imprese per favorire nuovi insediamenti produttivi e soprattutto con massicci investimenti pubblici (2) creare maggiori disponibilità finanziarie per i consumatori domestici agendo sulla leva fiscale, cioè con la riduzione del carico fiscale. Mi sembra che di tutto questo ci sia ben poco nella Legge di Bilancio 2019. Infatti gli incentivi alle imprese per favorire nuova occupazione sono ridotte al lumicino e/o demandate ai sindacati, qualche effetto (seppur limitato) potrebbe forse averlo la riforma previdenziale nota come “quota 100”, gli investimenti pubblici sono stati ridotti molto oltre il limite del tollerabile e il carico fiscale anziché scendere dovrebbe salire nel 2019 di mezzo punto. Contro ogni regola economica si vuole sostenere che, aumentando fortemente il regime assistenziale con il “reddito di cittadinanza”, si stimoli la crescita economica, ipotizzando addirittura - contro ogni logica previsione - un aumento del PIL dell’1%. È quanto mai evidente che crescita e sviluppo si ottengono se cresce l’occupazione. Il lavoro cresce se: (1) lo Stato investe in opere pubbliche e se (2) le imprese si trovano nella necessità di aumentare la produzione per soddisfare una maggiore domanda sia sul mercato interno che sui mercati esteri. Cosa c’entra con tutto questo il “reddito di cittadinanza”? Se un disoccupato si trova in un’area depressa, come farà a rispondere ad una o più richieste di lavoro se in quell’area il lavoro non c’è? E se in quell’area le imprese non investono? Sarà disponibile a trasferirsi a molti chilometri di distanza, ed a quali costi?
Per questo si concluderà che, per fare fronte alla povertà, il “reddito di inclusione” era più che sufficiente. Purtroppo con il nuovo regime ci saranno tanti abusi e si concederà il “reddito di cittadinanza” a tanti lavoratori in nero. Non ci saranno né gli strumenti né il tempo per effettuare i dovuti controlli. Il tutto si risolverà in un’ulteriore distribuzione di risorse a carattere puramente propagandistico e di conseguenza aleatoria. Questa pessima iniziativa, favorita anche dalla Lega, si aggiunge così ai milioni di pensionati (oltre la metà del totale) già “assistiti” in tutto o in parte, con un esborso totale di circa 110 miliardi all’anno. Molti di questi presentano i requisiti di necessità, ma molti di loro sono persone che hanno lavorato in nero per una vita, evadendo le imposte e quindi anche i contributi previdenziali. E adesso si prendono pure la pensione a spese della comunità. L’impressione che se ne ricava da questo e da molto altro è che viviamo nel Paese dei “furbi”. Le leggi li favoriscono anziché colpirli. Quelli colpiti e danneggiati sono sempre e soltanto i cittadini che si comportano onestamente. Altra situazione questa che ha ben poco a che fare con l’equità sociale.
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