La certezza del diritto è alla base della convivenza democratica
La difesa dei diritti dei lavoratori pensionati va oltre l’interesse di categoria, per costituire il baluardo dei principi fondamentali che regolano la convivenza democratica del Paese.
Antonio Dentato
Componente Sezione Pensionati Assidifer - Federmanager
Una partecipazione consapevole
Non mancano occasioni per ripetere il proposito di sostenere gli interventi politici e sindacali promossi dalle nostre rappresentanze Federali e Confederali (Federmanager e CIDA). Prima che ad esse occorre però rendere chiare a noi stessi le ragioni del nostro sostegno. La cui forza nasce dalle convinzioni che abbiamo della giustezza di quelle azioni. Il successo delle quali è strettamente legato anche alla capacità che abbiamo di diffondere (il numero degli aderenti anch’esso conta) il patrimonio di conoscenza delle questioni
che ci riguardano: la difesa dei nostri diritti, mai come difesa di casta, e sempre come contrasto a discriminazioni, abusi e derive che mettono a rischio la tenuta democratica. Da qualunque parte tali minacce vengano: dalle istituzioni, quando queste eccedono nella ripetitività di provvedimenti al limite della legittimità
costituzionale, dal circuito mediatico/demagogico che intende fare apparire i pensionati, o anche solo parte di essi, come dei privilegiati. Provocando così ad arte fratture intergenerazionali per obiettivi che niente hanno a che fare con l’equa distribuzione delle risorse del nostro Paese. Perché, se così fosse, altra dovrebbe essere la ricerca del consenso. E i terreni d’incontro, per una comune strategia, non sarebbero difficili da individuare. Anzi sarebbero d’immediata evidenza. Ma sono terreni difficili da coltivare con
intenti comuni. Perché gli sforzi compiuti dalle nostre Organizzazioni s’infrangono contro l’onda dei cambiamenti economici e sociali ormai in atto da decenni, a livello globale. E perché all’interno di questi cambiamenti, anche nel nostro Paese, sono state adottate politiche che hanno
allargato la forbice tra i pochi che sono diventati più ricchi e i molti che sono diventati più poveri. A farne le spese è stata la classe media, che per lungo tempo è stata fattore di equilibrio sociale, specie nei momenti bui della nostra Repubblica, quando le istituzioni democratiche sono state minacciate. E forse proprio per questo ora le si vuole far pagare il prezzo, spingendola sempre più verso la dissoluzione. Cominciando col colpirne i redditi. Dall’inizio degli anni ’80 ha subito e continua a subirne il graduale indebolimento, con politiche fiscali e misure sottrattive al limite della sopportabilità.
La crisi importata dall’America in Europa nel 2008, aggravata da errate politiche nazionali ed europee, ne ha accelerato il processo. Lavoratori e pensionati sono stati le vittime più numerose. Questi ultimi, per fermarci ad essi, hanno subito una decurtazione progressiva dei loro trattamenti. Un procedere che non si arresta e che sembra invece muoversi verso un sistema in cui la pensione non è più considerata come diritto previdenziale, ma come rimedio assistenziale.
La pensione come assistenza?
L’idea non è nuova. Sembra spinta da teorie che patrocinano un sostanziale stravolgimento dell’attuale sistema previdenziale. Dicono che, a fronte di bilanci pubblici che non riescono a mantenere la promessa di pensioni legate alle normative esistenti al momento della loro attribuzione, i governi dovrebbero tirar fuori più coraggio, finalmente, e incanalarle verso un sistema nel quale sia assicurata un’assistenza corrispondente alle esigenze di ciascuno. (Cfr. Pierre Pestieau, Georges Casamatta, Retraites par répartition et droits acquis, Revue économique, volume 50, n. 3, 1999).
Niente autorizza a dire che esistono orientamenti politici che assecondino, in modo esplicito, progetti di questo tipo. Ma da tempo si registrano provvedimenti che, alla lunga, sembrano condurre agli stessi risultati.
La storia della perequazione è emblematica. E non solo quella.
I moniti della Corte Costituzionale
Nonostante la Corte Costituzionale abbia affermato, fin dalla sentenza n. 26 del 1980, che proporzionalità e adeguatezza dei trattamenti previdenziali non devono sussistere soltanto al momento del collocamento a riposo, «ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta», i governi succedutisi da allora fino ad oggi hanno seguito una politica di segno totalmente opposto. E infatti, appena pochi anni dopo, la stessa Corte dovette ritornare sull’argomento. E con la Sentenza n. 349 del 1985 spiegò, con più ampie argomentazioni, che le disposizioni in materia di perequazione non possono vanificare “l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto”. Continuando disse che non sono consentite disposizioni tali da peggiorare “in misura notevole e in maniera definitiva un trattamento pensionistico in precedenza spettante, con la conseguente, irrimediabile vanificazione delle aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività”. Sommate le ripetute sospensioni della perequazione, di cui ben 6 negli ultimi 15 anni, gli appena enunciati parametri di difesa delle pensioni sono stati completamente travolti. Gli effetti di trascinamento riduttivi, anno su anno, hanno peggiorato "in misura notevole e in maniera definitiva i trattamenti pensionistici spettanti e hanno vanificato le aspettative legittimamente nutrite dal lavoratore per il tempo successivo alla cessazione della propria attività". Hanno prodotto decurtazioni permanenti dei redditi per tutta la durata della loro vita, estendendosi anche a tutta la durata della vita dei loro superstiti, titolari di pensioni di reversibilità, la falcidia delle quali, peraltro, è operata con dispositivi peggiorativi. E questo è avvenuto con misure al limite della legittimità costituzionale, se la Consulta, in numerose successive sentenze, ha dovuto richiamare il legislatore a moderare la reiterazione di misure sospensive del meccanismo perequativo. Tant’è che con la Sentenza n. 316/2010 e in maniera pressoché lapidaria ha dovuto ribadire che: “la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità [...] perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”.
E le pensioni non sono assolutamente difese, se si tiene conto che gli interventi di sospensione difettano di qualunque previsione di recupero per gli anni successivi. E questo urta contro il principio dell’adeguatezza che, per le prestazioni previdenziali, è sancito dall’art. 38 della Costituzione.
La paralisi del sistema perequativo
In effetti il legislatore avrebbe potuto emanare, una volta per tutte, una legge di esplicita riduzione delle pensioni, anche a partire da una certa soglia in su, come costantemente reclamato da movimenti e alcuni partiti politici. Ma l’avrebbe esposta al rischio di censura costituzionale. Ha proceduto, invece, con frequenti misure riduttive, ripetute quasi ad intervalli regolari negli anni. Ha reso così più accettabili i provvedimenti sul piano costituzionale, raggiungendo, in pratica, lo stesso risultato, sia pure in tempi più lunghi. Ha pressoché paralizzato del tutto il meccanismo perequativo, consentendone il funzionamento solo per le pensioni più basse. Per le altre i miglioramenti, quando applicati, sono stati irrisori. Solo di facciata.
L’evidenza del blocco, in sostanza totale, peraltro discriminatorio, non poteva ormai più essere tollerato dal giudice costituzionale, che, infine, con evidente disappunto, ha esclamato: “Non è stato dunque ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la Sentenza n. 316 del 2010”. Così ha detto nella ormai ben nota Sentenza n. 70/2015. Con la quale, dopo anni di sequenze sospensive e relativi richiami inascoltati, si è pronunciata, infine, per l’incostituzionalità della sospensione, bocciando quella biennale (2012-2013) disposta con l’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201.
Una sentenza trasgredita
Purtroppo abbiamo dovuto registrare che né il rammarico per l’inosservanza dei richiami espressi né, peggio, la dichiarata incostituzionalità della norma sospensiva della perequazione ha fermato il legislatore. Della Sentenza n. 70 questi ne ha dato una interpretazione del tutto particolare: ha proceduto ad una sua applicazione parziale e comunque tale da scatenare migliaia di ricorsi, rimessi nuovamente alla valutazione della Corte medesima. Sicché siamo in attesa di una nuova Pronuncia.
Le altre misure riduttive
Pur dinanzi a comportamenti così eclatanti e ripetuti nel tempo non ci sentiamo di azzardare l’esistenza di un disegno politico sotterraneo volto a ridurre le pensioni a sistema meramente assistenziale. Ma non possiamo escludere che alla lunga, anche se non programmato, si pervenga più o meno a tale risultato. Basti tener conto che in parallelo alle disposizioni sospensive della perequazione, per incidere ulteriormente sui redditi pensionistici e ridurli:
- è stato utilizzato per ben tre volte, dal 2000, lo strumento del cosiddetto “contributo di solidarietà”;
- una quarta volta è stato tentato, ma non è andato a buon fine perché dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale (Sentenza n. 116/2013);
- è stato introdotto, a partire dal 2012, il doppio calcolo della pensione, per cui se la pensione attribuita con il sistema contributivo è più alta di quella derivante dal sistema retributivo, è quella più bassa, che viene corrisposta.
Va aggiunto, tornando appena sull’utilizzazione del “contributo di solidarietà”, che il medesimo è oramai dichiarato costituzionalmente legittimo oltre che come misura improntata alla solidarietà previdenziale, anche quando è imposto dalla crisi contingente e grave del sistema previdenziale e sempre che incida sulle pensioni più elevate, in rapporto alle pensioni minime (Sentenza Costituzionale n. 173/2016). È vero che deve trattarsi di misura “una tantum”, ma le circostanze di utilizzabilità sono tali che potrebbe diventare strutturale. Come appunto è stato auspicato (e fortunatamente non concesso) da fazioni che avrebbero voluto inserire il proseguimento del contributo triennale 2014-2016 anche nella legge di stabilità 2017.
I nuovi interventi perequativi
Peraltro, sempre con riferimento alla sequela delle operazioni sottrattive sopra elencate, non possiamo non registrare con qualche inquietudine l’idea di un rilancio di politiche economiche che contengano possibili ulteriori interventi perequativi sulle pensioni, come emerge dalla presentazione degli studi esposti in occasione dell’aggiornamento su "La mortalità dei percettori di rendita in Italia" (Consiglio Nazionale degli Attuari 13 dic. 2016).
L’esperienza insegna che, quando si mette mano al meccanismo perequativo, gli interventi finiscono per essere sempre peggiorativi e mai migliorativi. Ovviamente sempre per la stessa platea di pensionati.
Conclusione
A fronte dei cambiamenti globali che si succedono in maniera vorticosa e dei conseguenti risvolti nel quadro sociale, non dobbiamo dare come ineluttabile la fine di ruolo della classe media, all’interno della quale i pensionati hanno sempre svolto un attivo impegno.
La resa della classe media porta sempre verso scenari densi di rischi. Come avvenne nel secolo scorso, quando negli anni ’20 essa non trovò la forza e la capacità di coesione per fare argine ad ascese autoritarie.
Non deve essere solo la tutela dei loro diritti la ragione dell’adesione dei pensionati alle iniziative politiche e sindacali promosse dalle Organizzazioni che li rappresentano. Vi sono ragioni più alte che spiegano perché, oggi più di ieri, occorre raccogliere e rafforzare la convinta partecipazione intorno ad esse.
Il riferimento è alla difesa dei principi fondamentali che regolano la convivenza democratica del Paese.
01 marzo 2017