Pensioni, ovvero l’etica della verità
C'è un’etica da rispettare: l’altruismo. In particolare nei confronti delle nuove e delle future generazioni. Un altruismo per lungo tempo dimenticato e che ha generato troppe disuguaglianze nella ripartizione delle risorse del nostro Paese. Non solo nel nostro, purtroppo.
Antonio Dentato
Componente Sezione Pensionati Assidifer - FedermanagerMa fermiamoci all’Italia. Dove sulla collera sociale, specie quella giovanile, si alimentano campagne ingiuriose contro i pensionati, con l’obiettivo di lucrare consensi per tutt’altri obiettivi che quelli di appianare quelle disuguaglianze. Perché a questo fine occorrerebbe convocare il consenso collettivo, come accade nei casi di prolungate calamità naturali, e richiedere partecipazione straordinaria a questo fine. A tutti. Come è stato fatto più volte nei confronti dei pensionati. Solo nei loro confronti. Come si dirà più dettagliatamente nel seguito. Ovvero, ancora meglio, occorrerebbe dar vita ad una politica virtuosa di ridistribuzione dei redditi in rispetto dei parametri costituzionali: ciascuno secondo le proprie capacità contributive; colpendo intanto corruzione, evasioni ed elusioni fiscali. Ma la politica appare non sufficientemente determinata, incerta ad intraprendere una tale strategia.
Al presente, la crescente conflittualità intergenerazionale è fomentata da fazioni che puntano su un target più ridotto, facilmente individuabile: i pensionati. Una componente sociale aggredibile con poco rischio: sprovvista di forza contrattuale, potenzialmente non attrezzata, per ragione di età, a marciare nei cortei, a gridare nelle manifestazioni di piazza (la vergognosa storia di Maramaldo, tutta italiana, continua a fare scuola in ogni campo della vita economica e sociale del nostro Paese). Scontate allora, più audience nei talk show, maggiori vendite di prodotti mediatici. A scapito della verità. Perché è alla verità che vengono sottratti i necessari supporti. Perché è alla verità dei dati numerici inoppugnabili che si toglie valore: troppo faticoso sarebbe farne oggetto dei necessari approfondimenti.
Non si dice la verità sulla spesa pensionistica. Perché questa, anche nei documenti ufficiali, è esposta al lordo e non al netto. Un esempio: nel rapporto dell’Inps “Statistiche in breve, ottobre 2016”, si legge che la spesa complessiva annua per prestazioni pensionistiche, al 31 dicembre 2015, è di 280,282 miliardi di euro. Solo nel Prospetto 3 pag. 4 del citato rapporto, è detto che si tratta “d’importo lordo medio annuo dei redditi pensionistici”. Poi il termine “lordo” scompare. In nessun caso è focalizzata l’attenzione sul fatto che da quella spesa occorre sottrarre l’ammontare dell’imposta che grava sulle pensioni. Imposta prelevata alla fonte, vale a dire prima che entri nelle tasche dei pensionati. Facile sarebbe dire che dalla spesa effettiva occorre sottrarre l’ammontare dell’Irpef che grava sui pensionati per 58,581 miliardi (Corriere della Sera - 31 luglio 2016, Itinerari Previdenziali, Alberto Brambilla). Una partita di giro contabile, insomma. Una semplice sottrazione ed ecco il dato vero: la spesa effettiva per pensioni è di 221,701 euro. Ma il dato che viene utilizzato per fare notizia è l’altro: 280 miliardi e passa. Fa più clamore, fa più audience.
E che dire del ritornello che il sistema retributivo è stato più generoso del sistema contributivo? Se si prende però la legge n. 190/2014, articolo 1, comma 707 (legge Fornero), viene fuori il dispositivo per cui, a partire dal 2012, se la pensione attribuita con il sistema contributivo è più alta di quella derivante dal sistema retributivo, è questa pensione, la retributiva, quella più bassa, che deve essere attribuita. Ci perderanno i più anziani, quelli che hanno avuto carriere più lunghe e hanno versato più alti contributi.
Non si fa mai menzione delle operazioni riduttive operate a danno di quanti sono andati in pensione con il sistema retributivo, per i quali, oltre alla riduzione del plafond degli anni e dell’ammontare della retribuzione presa a riferimento, in molti casi sono rimasti fuori conteggio i riscatti degli anni di università e migliaia di contributi prelevati su indennità escluse dal calcolo, ma regolarmente assoggettate a prelievi previdenziali.
Quanti soldi hanno perso i pensionati per effetto delle frequenti sospensioni della perequazione e per contributi di solidarietà? L’eventuale risposta, se venisse data, non farebbe notizia. Eppure, tra modifiche e sospensioni, fin ora sono stati praticati oltre venti interventi sulla perequazione, sempre in senso riduttivo. Non si dice niente dei tre contributi di solidarietà succedutesi nel tempo:
1) quello triennale (2000/02) istituito con legge n. 488 del 1999, art. 37;
2) quello, anch’esso triennale (2014/16), istituito con legge 27 dicembre 2013, n. 147;
3) quello, per sei anni (2012/17), istituito con legge n. 214 del 22 dicembre 2011, art. 24, comma 21, a carico dei pensionati ex Fondi speciali (Volo, Telefonici, Elettrici, Ferrotranvieri,
Inpdai) tutti confluiti nell’Inps.
Più clamorosa, ai fini propagandistici, è invece l’altra notizia, quella che annuncia l’enorme numero di pensionati con assegni molto bassi, sotto la soglia di povertà. Partiamo da dati ufficiali, quelli esposti nel Rapporto Inps più volte citato, dove è riportato che la prima classe, quella fino a 500 euro (arrotondamento anche in seguito) è rappresentata dal 12,6% dei pensionati, la seconda (500-1.000 euro) dal 27%, la terza classe, tra i 1.000 e i 1.500 euro, dal 21,3%. Infine i pensionati con redditi pensionistici oltre i 1.500 euro mensili sono circa 6.300.000, pari al 39,1% del totale dei pensionati (vedi figura n. 1). Milioni di pensionati percepiscono prestazioni modeste. Molti di essi, soprattutto quelli della prima e seconda fascia, sono totalmente o parzialmente a carico della fiscalità generale. Beneficiano di integrazioni al minimo, di maggiorazioni sociali, di pensioni sociali perché in 66 anni non sono riusciti a pagare né contributi né hanno pagato tasse.
Riportiamo ancora dal citato Rapporto Inps: “Limitatamente ai beneficiari di prestazioni di tipo esclusivamente assistenziale (invalidi civili, non udenti civili, non vedenti civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali e pensioni di guerra), quasi 3,5 milioni, il 53,4% è titolare anche di prestazioni diverse da quelle assistenziali. Sono principalmente i beneficiari di indennità di accompagnamento che percepiscono anche pensioni di tipo previdenziale”. Siamo nel campo di un’assistenza estesa. Apprezzabile, utile e necessaria. Che però riguarda una percentuale che va oltre, molto oltre quella che fisiologicamente è praticata in altri Paesi europei (da 3% al 6%, di massima).
Va tenuto conto d’altra parte che questa dimensione assistenziale appartiene, come lo stesso citato Rapporto dichiara, a “platee che per loro stessa definizione non sono distinte l’una dall’altra ma si sovrappongono in parte; infatti, per la possibilità di cumulo di più pensioni anche appartenenti a diversi tipi, un beneficiario può ricadere in più platee a seconda delle pensioni ricevute” (vedi figura n. 2). Si tratta, allora, di una spesa assistenziale indistinta rispetto alle erogazioni previdenziali derivanti da oneri contributivi. C’è qualcosa che non va e che andrebbe almeno verificata. La scorretta denominazione delle erogazioni, tutte definite pensioni, genera confusione anche nelle statistiche. E la continua crescita delle prestazioni assistenziali fatte passare come pensioni fa dire agli Enti internazionali che la spesa pensionistica dell’Italia, rispetto al Pil, è la più elevata fra i Paesi OCSE.
Riportiamo ancora dal citato Rapporto Inps: “Limitatamente ai beneficiari di prestazioni di tipo esclusivamente assistenziale (invalidi civili, non udenti civili, non vedenti civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali e pensioni di guerra), quasi 3,5 milioni, il 53,4% è titolare anche di prestazioni diverse da quelle assistenziali. Sono principalmente i beneficiari di indennità di accompagnamento che percepiscono anche pensioni di tipo previdenziale”. Siamo nel campo di un’assistenza estesa. Apprezzabile, utile e necessaria. Che però riguarda una percentuale che va oltre, molto oltre quella che fisiologicamente è praticata in altri Paesi europei (da 3% al 6%, di massima).
Va tenuto conto d’altra parte che questa dimensione assistenziale appartiene, come lo stesso citato Rapporto dichiara, a “platee che per loro stessa definizione non sono distinte l’una dall’altra ma si sovrappongono in parte; infatti, per la possibilità di cumulo di più pensioni anche appartenenti a diversi tipi, un beneficiario può ricadere in più platee a seconda delle pensioni ricevute” (vedi figura n. 2). Si tratta, allora, di una spesa assistenziale indistinta rispetto alle erogazioni previdenziali derivanti da oneri contributivi. C’è qualcosa che non va e che andrebbe almeno verificata. La scorretta denominazione delle erogazioni, tutte definite pensioni, genera confusione anche nelle statistiche. E la continua crescita delle prestazioni assistenziali fatte passare come pensioni fa dire agli Enti internazionali che la spesa pensionistica dell’Italia, rispetto al Pil, è la più elevata fra i Paesi OCSE.
Una chiara divisione fra assistenza e previdenza appare sempre più urgente. L’assistenza è praticata in maniera indiscriminata. È praticata doverosamente verso quanti hanno attraversato una vita di svantaggi e di ristrettezze, che non hanno potuto versare i dovuti contributi, e che la solidarietà sociale deve indiscutibilmente sostenere; ma è praticata allo stesso modo anche verso quelli che probabilmente non si sono comportati tanto bene (eufemismo!), in passato, nel presentare dichiarazioni di reddito e che, conseguentemente, hanno versato poco o niente nelle casse previdenziali. A colmare quei buchi ora deve provvedere la fiscalità generale, in diverse forme. Cioè tutti noi. La questione meriterebbe almeno qualche attenzione. Da quali attività lavorative, commerciali, professionali, provengono quelle pensioni?
Non si dice niente, infine, su tutte le altre sottrazioni. Niente sul fatto che i titolari di pensioni, quelle appena più dignitose, devono pagare ticket sanitari, e non sono ammessi ad usufruire di deduzioni e detrazioni quando presentano la dichiarazione dei redditi.
Molte pubblicazioni descrivono lo stato delle pensioni nel nostro Paese. Per lo più sono di parte. Per fare chiarezza sull’effettiva situazione delle pensioni nel nostro Paese occorrerebbe, finalmente, un’indagine istituzionale. Una sorta di “Libro bianco sulle pensioni”. Un libro diverso da quello descrittivo della Commissione europea, 2012: l’agenda dedicata a valutare la sostenibilità della spesa pensionistica dei Paesi membri (White paper an agenda for adequate, safe and sustainable pensions, European Commission, Brussels, 16 febbraio 2012). Occorrerebbe invece un libro bianco nazionale, aggiornato, in modo da far luce sui molti aspetti non facilmente comprensibili relativi alla situazione previdenziale del nostro Paese: sui contributi che, sembra, non siano stati versati da enti e aziende, anche pubbliche; sulle ragioni che rendono impossibile la ricostruzione della storia contributiva dei soggetti più anziani; sui cosiddetti “pensionati baby” che qualcuno chiama “baby spintonati”, perché sembra che a volte, più che per scelta personale, siano stati “spinti” sullo scivolo della pensione. Ancora giovani. E questo per attuare strategie di ristrutturazione di aziende malandate. Strategie spesso mal riuscite.
C’è un’etica da rispettare: l’etica dell’altruismo nei confronti delle nuove e delle future generazioni, come detto all’inizio. Per migliorare le loro condizioni di vita, ora e per gli anni a venire. Ma c’è anche un’etica da rispettare nei confronti degli anziani, dei pensionati: l’etica della verità. Almeno per una volta se ne dovrebbe parlare con dati alla mano, partendo da analisi approfondite su quanto essi hanno dato e quanto continuano a dare: in termini economici, nelle diverse forme di volontariato e di supplenza nel welfare familiare; di quanto hanno dato e continuano a dare in termini finanziari al Paese (l’elenco, sopra esposto, delle imposizioni a cui si sono dovuti rassegnare è appena una sintesi). Se ne dovrebbe parlare fuori da calcolati schemi propagandistici e demagogici, dei quali francamente siamo stufi. Per usare una terminologia consona alla compostezza di questa Rivista.
Non si dice niente, infine, su tutte le altre sottrazioni. Niente sul fatto che i titolari di pensioni, quelle appena più dignitose, devono pagare ticket sanitari, e non sono ammessi ad usufruire di deduzioni e detrazioni quando presentano la dichiarazione dei redditi.
Molte pubblicazioni descrivono lo stato delle pensioni nel nostro Paese. Per lo più sono di parte. Per fare chiarezza sull’effettiva situazione delle pensioni nel nostro Paese occorrerebbe, finalmente, un’indagine istituzionale. Una sorta di “Libro bianco sulle pensioni”. Un libro diverso da quello descrittivo della Commissione europea, 2012: l’agenda dedicata a valutare la sostenibilità della spesa pensionistica dei Paesi membri (White paper an agenda for adequate, safe and sustainable pensions, European Commission, Brussels, 16 febbraio 2012). Occorrerebbe invece un libro bianco nazionale, aggiornato, in modo da far luce sui molti aspetti non facilmente comprensibili relativi alla situazione previdenziale del nostro Paese: sui contributi che, sembra, non siano stati versati da enti e aziende, anche pubbliche; sulle ragioni che rendono impossibile la ricostruzione della storia contributiva dei soggetti più anziani; sui cosiddetti “pensionati baby” che qualcuno chiama “baby spintonati”, perché sembra che a volte, più che per scelta personale, siano stati “spinti” sullo scivolo della pensione. Ancora giovani. E questo per attuare strategie di ristrutturazione di aziende malandate. Strategie spesso mal riuscite.
C’è un’etica da rispettare: l’etica dell’altruismo nei confronti delle nuove e delle future generazioni, come detto all’inizio. Per migliorare le loro condizioni di vita, ora e per gli anni a venire. Ma c’è anche un’etica da rispettare nei confronti degli anziani, dei pensionati: l’etica della verità. Almeno per una volta se ne dovrebbe parlare con dati alla mano, partendo da analisi approfondite su quanto essi hanno dato e quanto continuano a dare: in termini economici, nelle diverse forme di volontariato e di supplenza nel welfare familiare; di quanto hanno dato e continuano a dare in termini finanziari al Paese (l’elenco, sopra esposto, delle imposizioni a cui si sono dovuti rassegnare è appena una sintesi). Se ne dovrebbe parlare fuori da calcolati schemi propagandistici e demagogici, dei quali francamente siamo stufi. Per usare una terminologia consona alla compostezza di questa Rivista.
01 dicembre 2016