Quale futuro per lo stabilimento di Taranto?

Non possiamo assistere alla perdita di patrimonio industriale determinante per il futuro del Paese, senza passar dalle proposte al piano d'azione.

Marco Vezzani

Presidente ASDAI LIiguria
Dieci mesi fa, in occasione degli auguri di Natale, ci siamo ritrovati tra colleghi della ex Italimpianti, gioiello della ex IRI smembrata decenni orsono, tutti ancora attivi anche se gli anni passano. Ci siamo detti quanto fosse triste e incomprensibile lo stallo governativo che stava spingendo alla chiusura del centro siderurgico di Taranto, che avevamo contribuito a progettare e abbiamo deciso  che occorreva fare qualcosa.

Già, ma che cosa? 

Mi è venuto allora  in mente il mantra del Presidente Cuzzilla, sempre teso a rivendicare le competenze dei  Manager al servizio del Paese, e ho pensato che quell’affermazione di principio eravamo in grado di metterla in pratica.

Abbiamo così elaborato uno studio che offre agli uomini politici di buona volontà una soluzione ovviamente ancora allo stadio della fattibilità, ma rigoroso e realizzabile; tre gli obiettivi: salvaguardare l’ambiente, la produzione e l’occupazione. Confesso che soprattutto i miei colleghi erano scettici sui risultati che avremmo ottenuto; ma a oggi, senza cantare vittoria, abbiamo avuto servizi giornalistici lusinghieri, in particolare quello di Panorama, interlocuzioni importanti con gruppi industriali, con sindacati, Confindustria e singoli uomini politici;  soprattutto, abbiamo potuto presentare lo studio al CNEL,  tra gli altri al Presidente Treu, e non è finita, perché contiamo di incontrare presto il MISE. 

Vogliamo insomma essere un pungolo, come è giusto facciano i manager, senza peraltro sposare un azionista piuttosto che un altro.
Riteniamo infatti, e non siamo i soli, che un Paese come l’Italia non possa fare a meno della siderurgia a ciclo integrale, ma che ciò vada fatto difendendo l’ambiente: è possibile.

Per riuscirci occorre battere due opposti estremismi: il primo è quello degli ultra-ambientalisti che sognano parchi giochi e fantomatiche nuove attività al posto dello stabilimento, ma mirano in realtà a 10.000 cassintegrati a vita; il secondo, meno vocale ma non meno insidioso, che pensa si possa andare avanti come niente fosse, spremendo il limone finche sarà possibile e continuando ad inquinare.
Noi invece abbiamo pensato a uno stabilimento diviso in due zone: la prima bonificata ambientalmente e imperniata sugli altoforni 4 e 5, capace così di produrre 6 milioni di tonnellate di acciaio, la seconda, basata su riduzione diretta e forno elettrico - e quindi meno inquinante - che produrrebbe inizialmente 2 milioni di tonnellate e che col tempo, terminata la naturale vita degli altoforni, potrebbe coprire l’intera produzione di 8 milioni, minimo necessario per una sana gestione economica.

Abbiamo anche dovuto smontare varie interessate fake news: la prima riguarda la maturità del ciclo riduzione diretta e forno elettrico, negata da molti per ignoranza o malafede; negli USA il 70% di acciaio viene prodotto così, e quindi usando gas naturale invece che carbone, e lo stesso si sta avviando a fare la Germania; dunque possiamo farlo anche noi.

Altra fake news ambientale: la confusione tra anidride carbonica e i veri inquinanti; la CO2 è responsabile dell’effetto serra e va ridotta (e noi prevediamo di farlo fino al 50%); ma non avvelena i polmoni dei tarantini, che invece vanno protetti da polverino di ferro e carbone, dalle diossine e dalle polveri sottili, come provvedono a fare gli interventi in via di realizzazione e quelli ulteriori che suggeriamo; riteniamo che realizzandoli tutti si possa scendere a un livello di inquinamento “nocivo” inferiore a quello della piazza principale di Taranto.

Altra fake news, purtroppo avallata dal ministro Patuanelli, che è pure ingegnere: la conversione a idrogeno è solo un modo per buttare la palla in tribuna, perché per un lungo periodo tale gas potrà essere utilizzato solo per alimentazioni energetiche parzialissime e costosissime.

Altro tema che abbiamo trattato è quello delle competenze: anche qui smentiamo le false notizie; in Italia abbiamo tutte le  competenze tecnologiche, produttive, realizzative: da Paul Wurth a Danieli, da Tenova ad Arvedi abbiamo proprio tutto; o meglio mancano le competenze di project management che aveva Italimpianti, ma proprio a Genova abbiamo Rina, che si è fatta le ossa tra l’altro  nel corso della realizzazione del ponte di Genova e che è un partner storico di Federmanager, e naturalmente abbiamo gli impareggiabili colleghi di Taranto, di Terni, di Piombino e di Cornigliano… e se serve qualche vecchio ex Italimpianti.

Insomma, si può fare, e riteniamo serva una forte partnership pubblico-privata, un partner industriale, poco importa se l’attuale o un altro, e si possono cogliere le opportunità offerte dai fondi europei per la transizione industriale verde; occorrono 36 mesi dal superamento delle attuali beghe paralizzanti e circa un altro miliardo di investimento (oltre ovviamente ai costi della gestione e del risanamento ambientale) e così facendo si può mantenere in Italia un indispensabile produzione e 10.000 buoni posti di lavoro a Taranto ma anche a Genova e Novi.

Ma occorre soprattutto coraggio e lungimiranza politica, quella che ancora manca.

Noi non ci arrenderemo e continueremo a “tampinare” i nostri decisori politici perché come diceva J.F. Kennedy, "Non bisogna accettare le sfide perché sono facili, ma perché sono difficili".