Un ceto medio sempre più vulnerabile: tra declassamento e blocco della mobilità
Dall'Assemblea CIDA del 20 maggio 2024
Si assiste da tempo a una lenta erosione del ceto medio italiano, ma ora il fenomeno è accelerato, e si rischia di perdere il pilastro della nostra società e il fondamento della nostra economia. Oggi il 60,5% degli italiani si sente di appartenere al ceto medio. Prima ancora che una questione reddituale, essere ceto medio è una condizione di identità e status sociale percepito. Ma se nel passato aureo dello sviluppo italiano essere ceto medio significava sentirsi parte di un movimento collettivo in ascesa, oggi prevale la percezione di un declassamento socioeconomico: il 48,8% vive il timore di una regressione nella scala sociale e il 74,4% ha la convinzione di un concreto blocco della mobilità verso l’alto.
Questi i dati che emergono dal Rapporto CIDA-Censis Il valore del ceto medio per l’economia e la società commissionato da CIDA, la Confederazione Italiana dei Dirigenti e delle Alte Professionalità, e presentati oggi durante un convegno tenutosi alla Camera dei Deputati, aperto con i saluti istituzionali del Vice Presidente del Consiglio e Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale Antonio Tajani.
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“L’obiettivo – come ha spiegato il Presidente di CIDA, Stefano Cuzzilla – è comprendere qual è la percezione del Paese rispetto a quella classe intermedia, né ricca né popolare, che dal 'Miracolo economico' in poi ha rappresentato il nostro cuore produttivo, e dare urgentemente voce a quasi metà della popolazione che sta vivendo una fase di 'declassamento' e non è adeguatamente ascoltata”.
Questo nuovo periodo è dominato da una paura palpabile del blocco della mobilità sociale “non solo per i redditi più bassi – come specificato da Cuzzilla – ma anche per le fasce di reddito fino a 50.000 euro e oltre, che sono quelle che trascinano consumi e investimenti. Certamente un netto distacco dall’ottimismo e dalle percezioni collettive di opportunità che un tempo erano diffuse tra noi. In fondo la parabola del ceto medio è la parabola vissuta dalla maggioranza delle famiglie italiane in più generazioni, passata da alti ritmi di crescita del PIL al suo rallentamento”.
I dati sono emblematici: il PIL italiano è cresciuto del +41,6 tra il 1970 e il 1980, del + 25% nel decennio successivo, per poi proseguire nel lento declino, che segna solo un +17,9% negli anni Novanta, fino a crollare al +3,5% nel quadriennio 2019 – 2023.
Questo downsizing economico che coinvolge il ceto medio non è un fenomeno solo italiano ma riguarda l’insieme dei Paesi più avanzati, dagli Usa a gran parte dei Paesi UE. Globalizzazione e cambiamenti tecnologici hanno spostato l’asse della creazione di reddito verso economie emergenti, svuotando le strutture produttive dei Paesi più avanzati che hanno perso occupazione di qualità, in termini di retribuzione e tutele. Eloquente il dato sulle famiglie: in un ventennio, dal 2001 al 2021 il reddito pro capite delle famiglie italiane è sceso del 7,7%, mentre la media europea saliva di quasi 10 punti percentuali, con le famiglie tedesche a +7,3% e quelle francesi a +9,9%.
Ciò spiega perché il presente e il futuro sono segnati dalla paura del declassamento, da una propensione a difendere il proprio status quo più che a migliorarsi, con la convinzione che l’andamento del benessere nel tempo sia decrescente. Un’idea radicata nella pancia sociale del Paese, condivisa in pieno dalla maggioranza netta di persone che si sente parte del ceto medio: il 66,6% degli italiani (il 65,7% del ceto medio) è convinto che le generazioni passate vivevano meglio e il 76,1% degli italiani (75,1% del ceto medio) ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali.
“A me preoccupa soprattutto questa assenza di speranza nel futuro – ha sottolineato con forza Cuzzilla – se le aspettative calano, se non si crede più di poter migliorare la propria condizione, se si ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali, sarà il Paese intero a pagare un prezzo altissimo. È nostra responsabilità, come manager e come società civile, rispondere a questo cambiamento e intercettarne i bisogni prima che sia troppo tardi. Significa investire per avere un sistema costruito sulla triade più alto benessere economico – più alti consumi – aspettative crescenti. Mentre oggi siamo in questa situazione: meno benessere economico – consumi ridotti – aspettative pessimistiche. Solo valorizzando l’impegno nel lavoro, il talento, le conoscenze e le competenze, è possibile riattivare i meccanismi di crescita.”
Ne è convinto il 57,9% degli italiani, per i quali impegno e capacità non sono adeguatamente premiati (54,9% del ceto medio). Inoltre, l’81% pensa sia giusto che chi lavora di più guadagni di più (80% del ceto medio), e il 73,7% ritiene legittimo e giusto che una persona talentuosa e capace possa diventare ricca (75% del ceto medio). Inoltre di fronte alle complessità del contemporaneo, a processi epocali di transizione relativi alle nuove tecnologie o alla sostenibilità, l’87,1% degli italiani è convinto che solo un innesto massiccio e capillare di culture e pratiche manageriali potrà consentire quell’upgrading di funzionalità che oggi è richiesto al sistema Paese Italia. Per l’82,7% il bravo manager nelle aziende e negli enti è colui che sa trascinare e motivare gli altri. Per l’84,4% degli italiani una più alta efficienza di imprese e Pubblica Amministrazione richiede dirigenti fortemente orientati a premiare i più meritevoli ad ogni livello.
In fondo già oggi il valore dei dirigenti si vede in molti ambiti complessi: l’85,8% delle famiglie è convinto che, se una scuola è ben gestita sul piano organizzativo, è più facile che garantisca anche buone performance didattiche e il 62,2% crede che avere manager come dirigenti nel servizio sanitario è un fattore di garanzia per i pazienti.
Ai membri del Parlamento che hanno partecipato – l’On. Annarita Patriarca, l’On. Paolo Barelli, l’On. Maria Elena Boschi, il Sen. Antonio Misiani e l’On. Marta Schifone – il Presidente di CIDA ha illustrato le proposte della Confederazione e spiegato l’urgenza di una presa di consapevolezza della situazione: “Bisogna invertire la tendenza che finora ha costantemente privilegiato misure volte all’assistenzialismo attingendo risorse dal ceto medio, principalmente pensionati e lavoratori dipendenti. Si tratta di una sfida strutturale, la stessa funzione del fisco – ha concluso Cuzzilla – andrebbe capovolta, trasformando la leva fiscale: invece che ostacolo, dovrebbe incentivare chi investe, chi crea lavoro, chi eroga servizi, chi ha talento e si impegna. È quello che emerge anche dalla ricerca. Ben l’80,6% degli italiani ritiene che il sistema fiscale dovrebbe premiare chi crea impresa, lavoro, opportunità”.
Proposte di CIDA alla politica:
- Revisione delle aliquote Irpef e del sistema di detrazioni/deduzioni. E' urgente una revisione del sistema Irpef che vada nella direzione della riduzione della pressione fiscale per le fasce di reddito medio-alte, passando gradualmente da tre a due aliquote. Infatti, il reddito non determina solo le imposte da pagare ma anche la possibilità di accedere a detrazioni, deduzioni e altri servizi. Deduzioni e detrazioni oltre una certa soglia di reddito (a partire dai 50mila euro in su) si azzerano. Quindi il saldo fiscale del ceto medio non è dato solo dall’ammontare dell’Irpef, ma anche da tutti i benefici potenziali che vanno persi. Il ceto medio quindi “ci rimette” due volte: prima perché sostiene le maggiori imposte e poi perché ha minori o mancati sconti e trasferimenti monetari che si traducono in maggiori esborsi (spese sanitarie, bonus asili, università, bollette, ecc.).
- Incentivi al merito. Sarebbe equo che le forme di decontribuzione e di defiscalizzazione collegate a premi di produzione o ad altre forme di riconoscimento della produttività e del merito vengano applicate alla generalità dei lavoratori, compresi quindi i dirigenti. Se si vuole riconoscere, com’è giusto, ai lavoratori una parte del merito nel conseguimento della performance, non si dovrebbe porre dunque alcun tetto retributivo all’applicazione degli incentivi fiscali e/o contributivi, l’applicazione dei quali dovrà risultare generalizzata, ovvero elevare l’attuale limite di 80mila euro di reddito da lavoro ad almeno 120mila euro per dare una significatività anche per la nostra categoria.
- Lotta all’evasione. Puntare su misure rivolte alla crescita del sistema piuttosto che alla mera assistenza. Introdurre il contrasto di interessi. Connettere tutte le presenti banche dati pubbliche per attestare l’omissione o la veridicità dei redditi dichiarati. Favorire forme di pagamento elettronico rispetto al contante.
- Supporto all’innovazione e alla competitività. Le imprese italiane si sono rivelate spesso incapaci nel rispondere alle sfide imposte dalla crisi economica; tra le cause di tale fenomeno vi è la cronica carenza di competenze manageriali nel tessuto imprenditoriale. Si potrebbero introdurre degli incentivi fiscali a favore delle figure manageriali che investono in startup o in partecipazioni nel capitale sociale delle piccole e medie imprese, a valere sull’imposta lorda sul reddito delle persone fisiche (Irpef), anche al fine di favorire l’avvio di progetti di innovazione o internazionalizzazione dei mercati.
- Tutela delle pensioni. Non bisogna trascurare che i pensionati compongono una buona fetta del nostro ceto medio: il 65,2% dei pensionati sente di appartenervi. Il potere d’acquisto delle pensioni è stato falcidiato dall’inflazione e dal mancato pieno adeguamento degli assegni dei pensionati del ceto medio. Applicare la perequazione per scaglioni, invece che per fasce, potrebbe essere un primo modo per ristabilire equità. A chi obietta richiamando la presunta insostenibilità del sistema, ricordiamo che per consentire una reale sostenibilità finanziaria sarebbe meglio separare in maniera contabile la previdenza dall’assistenza.
- Rafforzamento della previdenza complementare e degli investimenti. Calo demografico e discontinuità lavorativa daranno vita, nel tempo, a pensionati poveri. Il secondo pilastro diventa quindi fondamentale. Per non parlare del ruolo strategico che i fondi pensione possono giocare a sostegno dell’economia reale nel ruolo di investitori a lungo termine, non ancora adeguatamente incentivato. Per incentivare l’adesione alle forme di previdenza complementare occorrerebbe, quantomeno: incrementare il sotto limite in cifra fissa di deducibilità fiscale dei contributi fermo dal 2000; riportare l’aliquota di tassazione sui rendimenti in fase di accumulo a quella iniziale dell’11% o comunque non superando l’aliquota di tassazione delle rivalutazioni degli accantonamenti al TFR (17%); dare la possibilità ai datori di lavoro e ai lavoratori di versare i contributi eccedenti il massimale INPS (attualmente 119.650 euro annui) alla previdenza di secondo pilastro per i “contributivi puri” aumentando per costoro ulteriormente il limite di deducibilità fiscale dei contributi o prevedendo una specifica e separata misura agevolativa.
- Miglioramento dell’accesso e della qualità della sanità. Il miglioramento dell’accesso e della qualità delle cure sanitarie, finora garantiti esclusivamente dalle capacità e abnegazione del personale medico e ospedaliero, che ad oggi non è adeguatamente riconosciuto, non può che passare attraverso una più forte connessione fra sistema pubblico e fondi sanitari integrativi. Questo collegamento diretto tra il benessere del ceto medio e la qualità dei servizi sanitari dovrebbe essere visto come il normale corrispettivo di quanto versato. Il ceto medio non può essere visto sempre come tax player e mai come beneficiario di trasferimenti sociali. Anche perché quando capita, come capita, di dover affrontare un evento invalidante e avverso, senza un’adeguata copertura il rischio di impoverimento colpisce anche chi ha un reddito superiore a 50mila euro all’anno. Inoltre, dal 1997 i contributi di assistenza sanitaria integrativa (versati dal datore di lavoro e dal lavoratore a enti o casse aventi fini assistenziali sulla base di norme contrattuali o di regolamento aziendale) sono deducibili per un importo massimo di 3.615,20 euro che negli anni non è stato mai rivalutato. La soluzione non può che diffondere il welfare integrativo nell’ottica di una efficiente collaborazione tra pubblico e privato e riconoscere un ruolo fondamentale ai fondi integrativi, ai fini della verifica dell’appropriatezza della prestazione, del controllo della spesa e della sua relativa emersione.
- Nuove generazioni. Per favorire l’occupazione dei giovani riteniamo opportuno mettere in piedi un dialogo costruttivo e costante tra il mondo del lavoro e quello della scuola, non solo con riferimento all’istruzione di tipo secondario, ma, altresì, per quella universitaria e post-universitaria. La ricetta risiede nella co-progettazione tra tutti gli attori coinvolti (scuola, impresa e giovani) in cui un ruolo chiave svolge la figura del tutor che può essere efficacemente ricoperta da figure manageriali. Necessaria poi una formazione qualificata che sia continuamente allineata alle caratteristiche mutevoli del mondo del lavoro. In tale ottica, è fondamentale il potenziamento delle opportunità di formazione in contesto lavorativo mediante stage e tirocini professionalizzanti e percorsi di apprendistato. Infine, gli incentivi per la nuova imprenditoria rappresentano una parte importante delle misure per sostenere i progetti d’impresa e favorire la partecipazione dei giovani alla sfida dell’innovazione e della crescita economica.