Il peso del fisco e dell’inflazione sulle pensioni dei dirigenti
In un sistema che non riesce a colpire gli evasori fiscali e chi non ha mai contribuito, il 17% dei contribuenti onesti sostiene oltre il 63% dell’Irpef, ma sono i pensionati del ceto medio, colpiti da tagli e svalutazioni, a pagare di più: in quattordici anni hanno perso oltre il 21% del loro potere d’acquisto e rischiano di diventare il bersaglio stabile di un sistema fiscale sempre più iniquo
Foto di thelogocraft_ai da Pixabay
Mino Schianchi
Presidente Comitato Nazionale di Coordinamento Gruppi Seniores Federmanager e Presidente Comitato Pensionati ALDAI-Federmanager
In Italia nel 2024 la pressione fiscale è stata del 42,6%, in aumento rispetto al 41,4% dell’anno precedente. Le ultime statistiche dell'Ocse hanno certificato che, tra i Paesi più sviluppati, l'Italia occupa il terzo posto assoluto sul fronte della pressione fiscale.
Il peso del fiscal drag sui pensionati e sul ceto medio
Nonostante i recenti interventi normativi che hanno ridotto alcune aliquote fiscali, la pressione fiscale in Italia non è diminuita. Questo perché né gli scaglioni Irpef né le detrazioni sono stati indicizzati all’inflazione. Il risultato è che i contribuenti finiscono per pagare più imposte solo per effetto dell’aumento dei prezzi, senza aver registrato un miglioramento reale del proprio potere d’acquisto.
Per i lavoratori attivi, il legislatore ha introdotto misure compensative, come la detassazione parziale di alcune voci retributive. Diversamente, per i pensionati non è stata prevista alcuna forma di attenuazione del fiscal drag, con la conseguenza che buona parte dell’adeguamento pensionistico all’inflazione risulta di fatto neutralizzato.
Negli ultimi anni si è verificato uno spostamento progressivo del carico fiscale verso i contribuenti con redditi individuali superiori ai 50.000 euro. Pertanto, un segmento sempre più ristretto della popolazione si sta facendo carico di finanziare il sistema di welfare da cui invece trae beneficio una platea molto più ampia di cittadini.
I dati dell’ultimo Report dell’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate – curato da Itinerari Previdenziali e CIDA – lo confermano con dati evidenti: il 5,82% della popolazione con redditi superiori a 55.000 euro contribuisce per il 40,31% al gettito Irpef complessivo. Se a questa fascia sommiamo i titolari di redditi compresi tra i 35.000 e i 55.000 euro, risulta che il 17,17% dei contribuenti italiani versa il 63,71% di tutta l’Irpef.
Un altro 75,8% di contribuenti si colloca sotto la soglia dei 29.000 euro lordi annui e contribuisce per appena il 24,4% al gettito Irpef. Se aggiungiamo a questi dati, che circa 30 milioni di cittadini a basso reddito presentano annualmente la dichiarazione ISEE per accedere a servizi gratuiti o agevolati, comprendiamo il motivo del crescente malessere del ceto medio.
Anche la prevista riduzione dell’aliquota Irpef dal 35% al 33% nella fascia tra i 29.000 e i 50.000 euro interessa relativamente i dirigenti pensionati del ceto medio. Interesserebbe di più avere una curva della progressività Irpef che non equipari di fatto chi ha un reddito appena superiore ai 50.000 euro a chi guadagna somme milionarie. Parliamo in particolare dell’11,2% dei contribuenti, che dichiara un reddito complessivo tra i 40.000 e i 120.000 euro e che da solo copre il 36,4% dell’Irpef netta totale.
Lo spiega bene il Segretario generale del Censis, Giorgio De Rita, quando dice che oltre la metà degli italiani ha visto il proprio reddito fermo negli ultimi anni, mentre più di uno su quattro lo ha visto calare. Alla base di questa erosione vi è principalmente l’aumento costante dei prezzi dei beni di prima necessità. A ciò si aggiunge un sistema che tende a privilegiare due categorie: “i poveri certificati” (che troppo spesso non lo sono davvero) e gli evasori patentati, coccolati con regimi forfettari, sconti, condoni e flat tax.
Quale conclusione scaturisce da questi dati? Che il peso reale del gettito Irpef ricade quasi per intero su una minoranza di contribuenti, quel 17% che dichiara redditi superiori ai 35.000 euro l’anno. Una situazione sociale iniqua e insopportabile.
Flat Tax
Il regime forfettario applicato in Italia ad alcune categorie di contribuenti è iniquo e rischia di generare distorsioni, facendo perdere anche gettito fiscale: ad affermarlo è il Fondo Monetario Internazionale, che anche recentemente ha messo in evidenza i limiti della flat tax applicata alle partite IVA. Agli occhi del FMI la Flat Tax è eccessivamente sbilanciata a favore di una nutrita platea di beneficiari e dovrebbe essere abolita. Dagli ultimi dati pubblicati dal Ministero delle Finanze risulta invece che le adesioni al regime forfettario sono in netto aumento: i contribuenti in regimi fiscali agevolati (“regime fiscale di vantaggio” e “regime forfetario”) rappresentano oltre la metà dei titolari di partita IVA (51%).Evasione ed elusione fiscale.
L’evasione e l’elusione fiscale rappresentano da anni le principali distorsioni insite nel sistema tributario italiano. Secondo l’ultima Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva del MEF (novembre 2025), nel solo anno 2022 l’evasione contributiva viene stimata tra gli 8,4 e gli 11,6 miliardi di euro, mentre le mancate entrate tributarie si attestano a 89,7-90,9 miliardi. Un fenomeno divenuto strutturale, quasi senza suscitare indignazione nel grande pubblico, tollerato, spesso agevolato da condoni, stralci e regimi di favore. Fenomeno che va letto anche in rapporto al peso elettorale del blocco sociale che ne beneficia.
Pensioni e recupero dell’inflazione.
Per i pensionati del ceto medio alla situazione fiscale prima descritta si somma una gestione previdenziale sempre più negativa. Negli ultimi decenni, la normativa sulla perequazione delle pensioni ha seguito un orientamento che, se da un lato ha garantito maggiore tutela ai trattamenti più bassi, dall’altro ha progressivamente ridotto la protezione per quelli medio-alti. Normative che si sono tramutate in una riduzione strutturale, non più recuperabile, del valore delle prestazioni. In trent’anni le pensioni medio-alte hanno perso oltre un quarto del loro potere d’acquisto Si tratta peraltro di pensioni maturate grazie a carriere lunghe e a contributi versati in misura elevata, che oggi risultano sistematicamente penalizzate.
Considerate le mancate indicizzazioni patite dal 2012 al 2022, i trattamenti pensionistici oltre le 10 volte il minimo hanno perso rispetto all’inflazione totale dell’11,6% circa 9 punti percentuali. Perdita a cui si deve aggiungere quella del triennio 2023-2025, ancora più ingente per l’effetto combinato del boom dell’inflazione e dei meccanismi di perequazione a fasce anziché a scaglioni introdotti dal Governo. In questo caso, le perdite ammontano a circa il 12% che sommate alle precedenti, determinano una svalutazione delle pensioni di oltre il 21% nell’arco di 14 anni. In questo periodo di tempo una pensione da 5.500 euro lordi mensili (circa 3.400 euro netti) ha subito una perdita pari a circa 96.000 euro.
Siamo di fronte a una contraddizione evidente: 1,8 milioni di pensionati con redditi da 35mila euro in su, poco meno del 14% del totale pensionati, garantiscono da soli il 46,33% dell’Irpef dell’intera categoria, eppure sono proprio loro i più colpiti dai tagli e dalla mancata rivalutazione. Al contrario, chi ha versato pochi o nessun contributo è stato pienamente tutelato dall’inflazione. Sostenere i più fragili è un dovere, e la classe dirigente non si è mai sottratta a questa responsabilità, ma diventa un’ingiustizia quando la solidarietà ricade sempre sugli stessi mentre l’evasione resta impunita.
Conclusioni
Negli ultimi 25 anni, in modo sempre più netto, la giurisprudenza costituzionale ha assecondato il contenimento della spesa previdenziale, con un crescendo di rinvii, moniti, tolleranze. I nostri diritti sono stati via via compressi, sacrificati in nome delle compatibilità economiche. E oggi, siamo arrivati a un punto in cui la disparità di trattamento non fa più notizia. È diventata la norma.
E c’è un motivo perché questo accade: la politica non ci ascolta perché sa che non abbiamo forza reattiva. Ci considera un “peso” sociale, più che una categoria titolare di diritti.
Dinanzi a questa situazione possiamo continuare ad assistere inermi al declino dei nostri diritti, oppure trovare il modo per contare davvero, e pretendere rispetto. Non bastano i numeri che raccontano ingiustizie, se poi non portano ad una presa di coscienza collettiva della situazione.
Dobbiamo tornare protagonisti, anche senza strumenti tradizionali di contrapposizione. Dobbiamo costruire la nostra forza con la voce, con la presenza, con il voto, con la mobilitazione civile. Perché senza di noi, senza quello che abbiamo fatto e continuiamo a fare — come nonni, come volontari, come cittadini attivi —, questa società non starebbe in piedi.
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