Residenze per anziani: un’emergenza nell’emergenza
I numerosi contagi e decessi dentro le strutture residenziali per anziani hanno suscitato notevole allarme. Queste strutture sono diventate in questi mesi tra i principali focolai di concentrazione e, poi, di diffusione della pandemia nel territorio.
Mino Schianchi
Presidente Comitato Nazionale di Coordinamento dei Gruppi Pensionati e Vicepresidente ALDAI-Federmanager
Marco Arlotti e Costanzo Ranci, ricercatori del Politecnico di Milano, Laboratorio di Politica Sociale, hanno pubblicato una interessante studio sulla situazione delle Residenze per Anziani in Italia che sintetizzo in questo articolo per la nostra rivista Dirigenti Industria.
Nelle strutture residenziali del nostro Paese sono ricoverati 285 mila anziani over 65, di cui gran parte sono ultraottantenni (il 75%), donne (il 75%) e non autosufficienti (il 78 %). In Italia il tasso di copertura, con queste strutture, della popolazione over 65 è l’1,9%, circa la metà di quello della Spagna, un terzo di quello tedesco, quasi un quarto rispetto a quello di Svezia e Olanda.
Si tratta di strutture in cui la specializzazione sanitaria e di cura è oggi dominante su quella abitativa o alberghiera: sono sempre meno “case di riposo” e sempre più strutture residenziali a forte intensità sanitaria (RSA).
In Italia il sistema è molto più ridotto che negli altri paesi occidentali e fortemente schiacciato su prestazioni ad elevato contenuto sanitario. Tale aspetto si lega alla centralità assunta nel nostro paese dalla permanenza a domicilio dell’anziano, sostenuta dalle reti familiari e più recentemente dall’emergere del fenomeno delle assistenti familiari (le cosiddette badanti).
L’aumento delle prestazioni sanitarie per un’utenza con spiccati bisogni assistenziali ha aumentato notevolmente i costi di gestione delle RSA a fronte della invarianza, da diversi anni, della quota sanitaria di finanziamento pubblico.
Stretti nella morsa tra costi crescenti e carente finanziamento pubblico, le strutture hanno fatto ricorso ad altre strategie: aumento delle tariffe (a scapito degli utenti più poveri), taglio del personale (soprattutto quello medico, un fatto paradossale se si pensa che si tratta di strutture sempre più sanitarizzate), rinuncia al rinnovamento degli edifici e delle attrezzature. In queste condizioni, l’aumento dei costi è stato scaricato esclusivamente sulle tariffe pagate dagli utenti, mettendo sotto stress i bilanci di anziani e famiglie. Il costo complessivo mensile a carico dell’utente è oggi intorno a 1.800-2.000 euro al mese (circa 22.000 euro all’anno).
A fronte dell’aumento di ricoverati molto anziani e con forti bisogni di cura sanitaria e assistenziale, si è assistito al taglio del personale più specializzato e dell’intensità assistenziale. Un altro aspetto che ha caratterizzato le nostre RSA è il rapido processo di forte privatizzazione avvenuto nel settore. Tra le ragioni della privatizzazione gioca un ruolo importante la presunta maggiore efficienza gestionale e, in particolare, l’opportunità di ridurre i costi delle strutture.
La privatizzazione consente infatti una riduzione dei costi perché al personale - che rappresenta la variabile principale di costo - si applicano contratti di lavoro meno onerosi e meno tutelati rispetto quelli applicati dagli enti pubblici. Si è quindi venuto a creare un mercato misto pubblico-privato delle strutture residenziali, in cui le tensioni derivanti dal mancato investimento delle politiche pubbliche vengono “scaricate” sull’incremento delle rette e su una tendenza marcata alla riduzione degli standard e dei costi, inclusa la compressione del personale, che si traduce in un decremento sostanziale della qualità assistenziale.
Proprio perché le RSA concentrano al loro interno una popolazione molto fragile, queste strutture avrebbero dovuto, e dovrebbero sempre, offrire una condizione di particolare tutela sanitaria, per quanto riguarda le procedure, i dispositivi di protezione individuale, nonché le misure preventive volte a controllare l’infezione e a limitare il contagio. La diffusione dell’infezione ha invece falcidiato non solo gli anziani fragili, ma anche un numero rilevante di medici, infermieri, operatori socio-sanitari.
Gli autori dello studio avanzano l’ipotesi che le condizioni strutturali di fondo del sistema delle Residenze Sanitarie per Anziani non hanno favorito l’applicazione di standard qualitativi elevati finalizzati alla tutela sanitaria e assistenziale di una platea di ricoverati in condizioni di grande fragilità fisica, così come degli operatori coinvolti nelle attività di assistenza e cura. Quanto più il sistema si è specializzato nel trattamento della non autosufficienza grave, tanto più la sua qualità è stata messa a rischio da condizioni finanziarie molto precarie.
Tutto ciò impone quindi un ripensamento radicale del sistema delle Residenze per Anziani, per metterlo in grado di affrontare celermente anche le questioni emerse nell’immediatezza degli eventi recenti.
01 maggio 2020