Quando dare i numeri diventa una necessità
Le cifre hanno una loro forza autonoma, contrapposta al fumo degli approcci ideologici.
Giuseppe Colombi
Consigliere ALDAI Federmanager
Da dove partire
Prendiamola alla lontana: si dice che il nostro paese sia largamente egemonizzato dai giuristi e che soffriremmo di una mancanza di approccio scientifico; un ministro della pubblica istruzione di un tempo, magari sconsiderato ma almeno laureato, disse che gli studenti del liceo classico mancavano di “manualità”.
Forse, più che incolpare un sistema di pubblica istruzione le cui radici gentiliane non impedivano eccellenti risultati anche a livello scientifico, ci sarebbe da prendersela con la tendenza nazionale alla teatralità gesticolante ed alla dissezione del capello, di cui è paradigma l’antica tradizione giudiziaria del Mezzogiorno.
Con queste basi culturali, non ci si può stupire che quantificare i fenomeni prima di discuterne , l’approccio pragmatico caro ad alcuni ma non a tutti fra gli ingegneri, sia così poco diffuso.
Se a questo si uniscono la crescente complessità di tutte le questioni, la sciatteria e la fretta con cui esse vengono affrontate in perenne ritardo, la mala fede di molti che “tengono famiglia”, ecco spiegata la fatica dei tempi presenti.
Di qui bisogna partire anche nell’affrontare due questioni che riguardano assai da vicino tutti noi dirigenti, passati ed attuali, e dalle quali dipende la sopravvivenza stessa della nostra associazione sindacale: le pensioni ed il contratto.
Dirigenti: pensioni “d’oro”?
Nel mese di dicembre 2017, in un’interessante colonnina sul Corriere della Sera, il professor Alberto Brambilla ha evidenziato con chiarezza come la pura gestione pensionistica dell’Inps sia in attivo per una trentina di miliardi all’anno: a poche pagine di distanza, sullo stesso numero del giornale, un altro articolo derivava conclusioni opposte dalla solita lettura impropria dei dati “europei”, cioè gli stessi dati usati da Brambilla, ma letti per aggregazioni tendenziose.
Distinguere dove finisca l’informazione parziale e dove cominci la vera e propria malafede interpretativa non è facile: talvolta le basi analitiche sembrano cambiare a caso e il raffronto dei dati è spesso arduo.
Così le pensioni “d’oro” dei dirigenti sono nel mirino. Nei fatti, la dirigenza industriale italiana, quando anche abbia goduto di molti vantaggi previdenziali del passato, riceve oggi trattamenti pensionistici che si situano in maggioranza tra i tremila ed i quattromila Euro netti mensili. Ovvero tra quarantamila e poco più di cinquantamila Euro netti annui. Le cifre dell’INPS, che comprendono tutte le pensioni dei dirigenti, anzianità, vecchiaia, superstiti e quant’altro, sono mediamente addirittura più basse. Possiamo dire che si tratti di pensioni d’oro?
Stiamo parlando della categoria che si trova al vertice del mondo del lavoro.
Vogliamo parlare dei trattamenti di quiescenza di altri soggetti, privati e pubblici? O dei costi diretti ed indiretti del sistema politico allargato, in cui, secondo uno studio di qualche anno fa (UIL “I costi della politica” Dicembre 2013), una casta di almeno trecentomila privilegiati (per non definirli parassiti), che con le famiglie diventano un milioncino di persone, dissipa una cifra nell’ordine dei venticinque miliardi all’anno?
Pur nella difficoltà di disporre di cifre attendibili, utilizzando il dato più accreditato, si può dire che su un monte pensioni complessivo che viaggia attorno ai 220 miliardi annui, tutte le pensioni lorde dei dirigenti ammontano a meno di sette miliardi all’anno (per circa 130mila pensionati), cifra della quale rientra nelle casse statali ben più di un terzo di sola Irpef.
Insomma: se qualcuno volesse fare cassa con le nostre cosiddette “pensioni d’oro”, rimarrebbe deluso: di “trippa per gatti “ proprio non ce n’è per nessuno.
In compenso i nostri trattamenti non vengono aggiornati da lustri, grazie a “contributi di solidarietà” e ad imbrogli nella rivalutazione, che sono indegni di un paese che si vorrebbe “patria del diritto”.
D’altra parte, sappiamo quale sia la nostra “colpa” storica: ci eravamo dati un sistema previdenziale privato che forse avremmo dovuto curare di più, se il nostro patrimonio immobiliare veniva gestito poco meglio delle case popolari, ed abbiamo fatto appena in tempo a confluire nel mare grande dell’INPS, con buona pace delle sbrodolate sulla “managerialità” delle istituzioni di categoria.
Trascorsi tanti anni, ora però basta: non è più il caso di essere trattati da sfruttatori, quando se facessimo il ricalcolo contributivo delle nostre pensioni otterremmo un risultato non difforme da quanto riceviamo.
Il rinnovo del CCNL Dirigenti
Ugualmente, venendo ai colleghi in servizio, si pone la questione del rinnovo del contratto.
Qui siamo davvero al paradosso: la cifra complessiva delle retribuzioni dirigenziali si aggira sui dieci miliardi all’anno: è una goccia nel mare retributivo complessivo. Ma questo non impedisce a Confindustria di considerare il rinnovo del contratto dei dirigenti come una partita “politica” da affidare ai più feroci negoziatori, da “vincere” ad ogni costo, magari solo per dimostrare le loro capacità a quelle aziende che sono già uscite dall’organizzazione datoriale.
Confindustria sembra non aver ancora metabolizzato un concetto, come su Dirigenti Industria si scrisse qualche anno fa: che “Simul stabunt, simul cadent”. Ovvero che, distrutta la dirigenza, non è che anche loro staranno proprio in salute.
In più circostanze abbiamo lamentato la povertà dell’ultimo risultato del 2014: di rimando, da parte dei colleghi protagonisti di quella negoziazione, ci sono state scagliate le peggiori accuse di estremismo ed irresponsabilità e in difesa di quel risultato sono state scritte cose inverosimili, sino al ridicolo.
Anche in quel caso, le cifre più significative inerenti al rinnovo contrattuale sono state accuratamente celate nella nostra stessa organizzazione, in questo assolutamente concorde con la parte confindustriale.
Oggi scopriamo che il mantenimento del sistema del doppio trattamento minimo di garanzia sarebbe stato un costo irrisorio, e che l’obiettivo di procedere ad un “rinnovo a costo zero”, era tutto politico, servendo appunto semplicemente a segnare “la vittoria” dei più sanfedisti tra i negoziatori datoriali, personaggi di cui è auspicabile ed utile l’esclusione da future discussioni contrattuali.
Dirigenti nuovi non ne sono stati fatti in numero maggiore, come si sperava di fronte ai sacrifici retributivi, e l’unico risultato certo che si è ottenuto è stato quello di abbassare ulteriormente tra i colleghi più giovani la percezione del sindacato manageriale come soggetto importante per la difesa della categoria.
Un preoccupato sguardo al futuro prossimo
Le prime avvisaglie del rinnovo 2018 non sono certo rassicuranti: l’impostazione e le persone stesse che sono state centrali nella scorsa tornata negoziale rimangono ancora attivissime nell’orientare in modo analogo anche i contenuti della negoziazione futura. Dobbiamo dirci con chiarezza che è ora di cambiare e che, in nome dei tanto conclamati riconoscimento del merito e managerialità, per il pessimo risultato conseguito questi nostri personaggi vanno ringraziati e rimandati a casa.
Per di più, detto che la trattativa si deve fare a partire da numeri certi, è necessario lasciare fuori dalla nostra delegazione i molti maggiorenti locali, capi del personale, finti dirigenti attivi, consulenti a cachet ed altri soggetti impropri, per così dire in evidente conflitto “culturale” con la trattativa.
Un professionista quarantenne che giunga alla dirigenza dovrebbe essere messo nella condizione di dedicare totalmente le proprie energie al suo lavoro, liberato da una condizione di precarietà ed insicurezza che lo faccia “dormire preoccupato”. Non è questo lo stress positivo che può migliorarne i risultati.
Un segnale di discontinuità è necessario, anche per rimotivare i molti colleghi giovani che ormai spesso considerano il passaggio alla dirigenza più un salto nel buio che una promozione.
Dire che un dirigente è di partenza un professionista che vale una RAL superiore ai settantamila Euro annui e che dopo sei anni di permanenza nel ruolo è ragionevole che la sua retribuzione si sia elevata di almeno diecimila Euro annui non è elemento capace di pregiudicare i bilanci di nessuna impresa, nemmeno la più piccola e familiare, che peraltro di solito di dirigenti non ne nomina comunque.
E sarebbe necessarissimo invece a quella buona metà della categoria che, nelle aziende medio-grandi rimaste, vede nel contratto l’unica opportunità di difesa professionale di fronte a cambi di strategia, di cordata, di proprietà internazionale, che fanno del dirigente una “foglia al vento” del mercato.
E questo è tanto più vero di fronte al crescente numero di quadri che superano largamente questa retribuzione, in totale spregio della condizione dirigenziale. Se qualcuno viene nominato dirigente, non si capisce perché dovrebbe percepire un salario inferiore a quello di altri lavoratori che dirigenti non sono.
La decadenza di un paese si misura anche da questo, e ci si lasci dire, è davvero ora di cambiare strada.