Il futuro dell'economia

Tra luci e molte ombre

Daniele Damele  

Presidente Federmanager Friuli Venezia Giulia
È indubbio che la situazione dei conti pubblici non sia affatto positiva con un eccessivo debito del Paese. Ciò determina una fragilità vera aggravata da uno scenario internazionale dove i mercati finanziari, preoccupati per la nostra situazione, iniziano a svendere i nostri titoli pubblici mentre aumentano gli interessi sul nostro debito.

È una situazione complicata. Accanto a ciò vi è una seconda fragilità che riguarda l’economia reale. Negli anni Settanta a causa della crisi petrolifera abbiamo affrontato una crisi finanziaria spaventosa, più allarmante di quella di oggi. Allora il Paese, nonostante quella situazione di eccessivo debito, resistette grazie a una economia robusta sostenuta dall’industria in particolare del Nord Italia. 

Adesso l’economia reale non è abbastanza solida, in quanto vi è un’economia sommersa più debole rispetto agli anni Settanta. 
Il Nordest italiano per almeno una trentina d’anni è stato legato all’economia tedesca e oggi risente di un rallentamento generale che sta provocando un indebolimento di tutto il tessuto produttivo. Inoltre la crisi in atto sui mercati internazionali spinge a vendere i nostri prodotti sul mercato domestico che non è abbastanza robusto e anzi risente della crisi dei consumi che ha colpito tutta l’Europa. 

Forse è il caso di ipotizzare un grande mercato interno europeo alternativo. Dobbiamo imparare a vendere i nostri prodotti negli States, in Cina o Giappone, ma soprattutto all’operaio polacco o al portuale danese. 

L’imprenditore medio italiano non ha ancora una cultura europea e la immagina come un ente regolatore, un peso burocratico che da Bruxelles ci impone i suoi diktat. Il Nordest, bravo a sfruttare spazi dall’altra parte del mondo, dovrebbe pensare anche a una strategia di crescita in Europa. 

Daniele Damele - Presidente Federmanager Federmanager Friuli Venezia Giulia

Daniele Damele - Presidente Federmanager Federmanager Friuli Venezia Giulia

Una volta in Italia si effettuavano acquisti di beni che riportavano alla nostra identità: il salotto buono, la cucina, il televisore, l’automobile. C’era una forza del mercato interno che copriva anche alcuni spazi di produzione che non venivano esauditi dall’estero.
Oggi invece il mercato italiano non procede più per ondate di acquisti come è accaduto l’ultima volta quando è arrivato lo smartphone. Nell’economia italiana il marchio è essenziale, ma non riflette tutta la forza della nostra economia. 
È scontato pensare che un paio di occhiali prodotto in Italia sia di qualità, l’economia nazionale è vissuta a lungo sulla fama dei grandi marchi della moda. Oggi però tutto ciò non è più così importante proprio perché il livello della qualità dei prodotti è calato. 

Forse è arrivato il momento di valorizzare di più il marchio dei macchinari industriali che sono la nostra vera forza e dove l’Italia è il più importante produttore al mondo. Indubbiamente lo sviluppo è un processo squilibrato per sua natura e non garantisce la giustizia sociale e la crescita. 

Pensiamo a quanta fatica e dolore per le famiglie sono costate le migrazioni degli anni Sessanta per andare a lavorare nell’industria dell’auto a Torino. E poi l’economia sommersa degli anni Settanta. Oggi abbiamo una grande paura è l’ansia e riguarda tutti. Chiunque si occupi di economia ha, infatti il timore che arrivi una nuova recessione, ma soprattutto teme di non disporre degli strumenti per contrastarla. 

L’allarme sullo stop agli investimenti, l’inverno demografico, l’immigrazione regolata, i giovani e ancora la richiesta chiara e diretta al Governo di riproporre il Piano Industria 4.0. La produzione è in calo. S’impone la necessità d’intravedere molto chiaramente i problemi e i tempi duri che stanno avanzando. 

Non si tratta di lanciare allarmi (dalla situazione mondiale a quelle locali), ma di proporre anche soluzioni. Non può essere mantenuto lo stato di emergenza per affrontare qualunque cosa. 

Il dato allarmante, oltre alla congiuntura, riguarda le aziende del Nordest che non hanno chiesto nuovi affidamenti nell’ultimo anno. 
Questo deve preoccuparci perché un territorio con produttività stagnante e in crollo demografico c’è un bisogno estremo di investimenti (e non di innalzamento dei tassi d’interesse).