Il merito si paga sette volte

Il riconoscimento del merito in Italia è il peggiore d’Europa e considerando anche l’enorme debito pubblico aumenta il rischio di fuga dei giovani di buona volontà in cerca di contesti fertili e stabili nei quali potersi realizzare.

Franco Del Vecchio

Consigliere ALDAI-Federmanager - franco.del.vecchio@tin.it
L’estate e le vacanze sono un’occasione per riposare, ricaricare le energie, ma anche leggere e riflettere in serenità, senza i condizionamenti e le abitudini, anche mentali, della routine quotidiana. 

Quest’anno ho letto il recente libro di Alberto Brambilla: “Le scomode verità” la cui recensione è disponibile cliccando il titolo. Ogni pagina del libro è stata per me di grande sollievo. Abituato a ragionare con la propria testa, temevo di essere il solo a pensare che la politica e i media non si occupassero più dei problemi reali della società: la libertà, il benessere di tutti, il rispetto delle persone e soprattutto dei giovani. Più che amministratori, pro tempore, della cosa pubblica, avevo e ho la sensazione di discorsi da “Principe” che benevolmente elargisce “panem et circensis” per prendersi il merito e ingraziarsi gli elettori. Mai una volta ho sentito completare l’elargizione di turno con il commento su chi paga, e mi è sorta spontanea la risposta “io” e tutte le persone oneste che pagano le tasse, ma considerando la mia età, saranno ancor più i giovani a pagare prima o poi il conto. Leggendo il libro ho riguadagnato, pagina dopo pagina, fiducia nelle mie convinzioni, perché c’è almeno un’altra persona della mia stessa età che analizzando i dati oggettivi sulla spesa pubblica è giunto alle stesse conclusioni sulle verità nascoste. Quindi, un libro prezioso da consigliare e regalare, per conoscere il contesto storico che stiamo vivendo e risvegliare le coscienze per contribuire alla rinascita economica, etica e civile del Paese.

Sono partito dal libo di Brambilla per introdurre il tema del riconoscimento del merito, perché in una moderna società civile è indispensabile coniugare il riconoscendo del merito con il benessere collettivo realizzato con il sostegno a tutti i cittadini. Conseguire cioè il duplice obiettivo di incentivare l’impegno per la creazione di ricchezza e aumentare il benessere riducendo la povertà, distribuendo la ricchezza creata. Bisogna evitare però il rischio di limitarci a distribuire ricchezza sottraendola al riconoscimento del merito, perché senza incentivo alla crescita assisteremmo al progressivo impoverimento della società. Purtroppo le politiche si sono finora limitate ad elargire all’elettorato d’interesse sussidi e contributi in modo selettivo e discriminatorio, punendo in modo anche indegno categorie che contribuiscono all’economia reale del Paese, istigando addirittura l'invidia sociale.

Come mai l’Italia è in fondo alla classifica della meritocrazia in Europa?

Da 5 anni l’Italia è all’ultimo posto nella classifica europea della meritocrazia secondo l’indicatore scientifico “Meritometro”, realizzato dal Forum della Meritocrazia in collaborazione con l’Università Cattolica e basato su 7 criteri di valutazione: libertà, pari opportunità, trasparenza, regole, mobilità sociale, attrattività dei talenti e sistema educativo, come risulta dagli articoli: “Tavola Rotonda sulla Meritocrazia” e “In cerca di merito (altrove)”.

Il titolo del libro di Brambilla evidenza le carenze di trasparenza e un minimo di informazione sui contesti degli altri Paesi europei permette di trarre le conclusioni sulla stabilità delle regole, la mobilità sociale, l’attrattività e a pensarci bene anche sulla libertà per la quale hanno dato la vita i nostri predecessori e che lasciamo gestire a chi ci tratta da seguaci, come si usava nel medio evo.

Invece del riconoscimento del merito aumenta l’attenzione per l’aurea mediocritas. Osservando oggettivamente la realtà in Italia il merito si paga ben sette volte:
  1. Se l’impresa riconosce il merito e aumenta lo stipendio si pagano (giustamente) più tasse, e questo è sacrosanto perché chi più guadagna deve maggiormente contribuire.
  2. L’aumento del reddito implica il passaggio a scaglioni con percentuali di tassazione più elevate: zero percento fino a € 8 mila di reddito dipendente o di pensione; 23% fino a € 15 mila, poi 27% fino a € 28 mila, 38% fino a € 55 mila, 41% fino a € 75 mila e 43% per la parte superiore di tale limite di reddito. Insomma la ben nota tassazione progressiva che è utile ricordare, per riconoscere il maggiore contributo alla finanza pubblica delle diverse fasce di reddito, come indica l’Articolo 53 dalla Costituzione “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Fin qui siamo nelle giuste logiche di equità, se lo sono le aliquote applicate ne tempo.
  3. Il cosiddetto bonus Renzi che riconosce un credito di € 80 mensili (€ 960 l’anno) per i possessori di reddito inferiore a € 24.600 e che si riduce progressivamente fino ad azzerarsi oltre € 26.600, costituisce un sostegno contrario al riconoscimento del merito che può anche condizionare le scelte del lavoratore. Non sono infatti rari i casi di dipendenti che rifiutano l’aumento di stipendio perché a conti fatti 2 mila euro lordi in più fanno perdere il credito di 960 euro. Pur considerando lo scopo meritorio di assistere i redditi più bassi tali interventi non favoriscono, anzi sono di natura opposta al riconoscimento del merito e costituiscono squilibri all’equità complessiva, contribuendo anche a complicare il sistema di tassazione e aumentare la burocrazia.
  4. Anche le progressive riduzioni delle detrazioni e deduzioni all’aumentare del reddito costituiscono interventi di segno opposto al riconoscimento del merito. Il termine detrazione è citato ben 492 volte nelle 124 pagine delle istruzioni per la compilazione del modello 730 2020, una giungla nella quale si perdono gli onesti e traggono vantaggio gli evasori.
  5. Senza nulla togliere al valore sociale dei contributi alle persone realmente bisognose anche i bonus: pannolini, vacanze, etc. sono di natura opposta al riconoscimento del merito. L’eccessivo uso di tali misure, il cui giudizio è lasciato agli elettori, incentiva la caccia al bonus, fino a dichiarare il meno possibile o nascondendosi al fisco per poterne usufruire, a scapito dell’impegno nel lavoro per conseguire maggior reddito e contribuire di più al futuro del Paese.
  6. Fin qui i costi del merito durante la vita lavorativa; ma non finisce qui. Una volta in pensione più i datori hanno riconosciuto il merito e hanno contribuito con i versamenti per la pensione e maggiori sono le penalizzazioni in termini di adeguamento all’inflazione e veri e propri tagli per le pensioni superiori a € 100 mila. Insomma lo Stato non riconosce il merito già attribuito dalle imprese, anzi lo punisce.
  7. Il costo del merito rappresentato dai primi sei punti è il prezzo da pagare in un Paese che il merito lo rileva solo per tassarlo. Ma non finisce qui, perché è ancor più oneroso il trattamento da gogna mediatica e persecuzione politica riservato a chi dichiara redditi maggiori.

Siamo sicuri di essere sulla strada giusta?

Se la maggioranza fosse di fannulloni sarebbe interesse del Paese premiare i nullafacenti?
Che senso ha impegnarsi e investire nell’educazione e istruzione dei figli per assicurare una vita migliore, come hanno fatto i nostri genitori, se poi il merito non è riconosciuto e bisogna andare all’estero per ricevere soddisfazione?

Con l’emergenza COVID-19 la deriva assistenziale del Paese, condizionata dalla politica e dai media, ha superato le logiche del buon senso, fino a far credere che si possa vivere di sussidi senza lavorare e si possa e sia lecito vivere a carico degli altri. “Se ci danno mille euro al mese smettiamo di lavorare,  ce ne stiamo a casa ben distanziati e risolviamo il problema”, come ho sentito dire più volte quest’estate. Commenti leciti quanto irresponsabili e rischiosi per il futuro del Paese.

Dunque

È arrivato il momento di riflettere e trovare soluzioni che permettano in prospettiva di riconoscere, anche moralmente, il merito di chi contribuisce maggiormente al benessere della collettività e alla riduzione della povertà.

Meriterebbe valutare un modello economico sociale che permetta di coniugare il riconoscimento del merito con un sistema di assistenza uguale per tutti i cittadini, che non permetta alcuna discriminazione, come ho scritto la scorsa estate nell’articolo “Reddito di cittadinanza per tutti”.

Il problema è sociale e sono certo che le persone che hanno a cuore il futuro del Paese metteranno da parte ideologie e pregiudizi per aprire un confronto costruttivo e trovare la migliore soluzione nell’interesse collettivo.

Non mancheranno quindi le occasioni per tornare sull’argomento. Il 4 novembre CIDA sta organizzando un Webinar Tavola Rotonda sulla “Fiscalità ed evasione fiscale”. A presto.
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