A proposito del Congresso
"...da dove veniamo... L'Infanzia della dirigenza"
Mario Giambone
Presidente Comitato Pensionati ALDAI
In occasione di momenti significativi composti da eventi importanti, per i quali vanno ponderate e verificate le istanze di cui ci si vuole occupare, vale la pena, alle volte, fare il punto della loro consistenza possibile ed anche di quanto ci ha preceduto. Ricordiamo che l’appuntamento congressuale costituisce un passo importante della vita associativa, specie per le organizzazioni sindacali dei soggetti sociali rappresentati, la cui validità è basata su comportamenti regolamentati e consolidati, e comporta quindi il non facile compito di mantenerne la prosecuzione.
Federmanager, la nostra organizzazione, ha una storia che viene da lontano e di cui non sempre ne vengono ricordate le origini.
Vale quindi la pena (…specie per le nuove generazioni) farne qualche cenno. Si disse, ad esempio, come nella Genesi vi fosse il caos e a crearlo ci pensarono i primi uomini politici…?
Allora noi potremmo legittimamente rivendicarne la similitudine considerando che con l’Arca, risultando una compagine ben organizzata, Noè sia stato il primo manager della storia!
Naturalmente, a parte le facezie, giusto a nostro sostegno, e per i più giovani, possiamo ricordare che la figura dirigenziale ha i suoi primi prodromi intorno al 1920, quando la qualifica di dirigente di azienda non esisteva. Ci si deve rifare al R.D. 13 settembre 1923, che nel disciplinare l’orario di lavoro degli impiegati ne escludeva l’applicabilità al “personale direttivo” che, in successive precisazioni, distingueva, tra le categorie, quella degli “impiegati con funzione direttive” da cui sarebbero poi emersi quelli che furono definiti dirigenti.
Infatti, nel 1926, con l’avvento del regime sindacale corporativo, fu istituita la qualifica di dirigenti di azienda, precisando che dovevano far parte di associazioni autonome distinte dalle altre; per cui l’art. 34 dello stesso R.D. stabiliva l’adesione di tali associazioni all’organizzazione degli imprenditori. Questo inquadramento, che influenzerà psicologicamente a lungo la considerazione della categoria, fu motivato dall’affinità delle funzioni dei dirigenti con quelle degli imprenditori, in un regime in cui gli interessi privati di enti o individui erano subordinati a quelli dello Stato corporativo.
I sindacati corporativi avevano la funzione di stipulare convenzioni collettive, per cui ne derivò un trattamento di lavoro specifico per i dirigenti industriali. L’evoluzione sindacale portò successivamente alla stipulazione di un nuovo contratto collettivo in data 28 ottobre 1937. Importante ricordare che proprio da esso venne istituita a favore dei dirigenti una previdenza a carattere obbligatorio, alimentata pariteticamente dalle due parti, alla cui gestione venne designato l’Istituto di previdenza appositamente costituito, alimentato da una contribuzione paritetica del 5% delle retribuzioni, affluente su conti individuali; una forma di accumulazione di capitali e interessi (allora non si parlava di inflazione).
Chi potrà mai ricordarsi che in quegli anni la previdenza dell’Inps si applicava soltanto ai lavoratori con meno di 800 lire mensili di retribuzioni, poi elevati a 1.500 lire. Quindi normalmente i dirigenti ne erano automaticamente esclusi.
L’assetto giuridico della categoria fu confermato dal nuovo Codice Civile del 1942, e dall’art. 2095; quello che vale la pena evidenziare è che, in esso, non vi era alcuna definizione utile per l’attribuzione della qualifica dirigenziale. Questa fu lasciata pertanto alla faticosa elaborazione da parte della giurisprudenza sulla base di esemplificazioni contenute dal succitato articolo, quindi con risultati oscillanti, ma gradualmente sempre più coerenti.
Dopo il sofferto periodo post-bellico, si può rilevare che, nell’aprile del 1946, in un’assemblea svoltasi a Firenze, le varie realtà sorte sulle ceneri dei sindacati corporativi, si unificarono formalmente nella costituita Federazione Nazionale Dirigenti Aziende Industriali – FNDAI – e che successivamente, in data 26 maggio 1946, fu stipulato il primo contratto collettivo, seguito da una successiva edizione del 31 dicembre 1948 che ne regolò in modo autonomo e completo tutta la materia.
Oggi, ci definiamo Federmanager e di acqua ne è passata… molte cose sono accadute, in termini di organizzazione interna non sono mancati cambiamenti e nascite di nuove iniziative; siamo presenti su tutto il territorio nazionale e partecipiamo in maniera attiva nella varie realtà che alimentano, non solo il mondo produttivo, ma anche quello civile e sociale. Assistiamo allo stravolgimento delle situazioni che hanno anche cambiato il “terreno di gioco” e, conseguentemente, le caratteristiche necessarie ai “giocatori”. L’impegno cui siamo chiamati, ci vede combattere contemporaneamente sulla necessità di difendere quanto costruito con fatica – cosa che costituisce il nostro patrimonio di esperienze – e sul mantenere una linea di galleggiamento degna della nostra categoria che è chiamata a sostenere nuovi compiti per i quali gli sforzi saranno ancor più onerosi.
Dobbiamo considerare che il nostro non è un Paese che tiene coerentemente conto della meritocrazia. Infatti il “Meritometro”, indicatore quantitativo di sintesi e misurazione dello “stato di merito” di un Paese, con raffronto a livello europeo realizzato dal Forum della Meritocrazia in collaborazione con l’Università Cattolica, basato su 7 pilastri – libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza, mobilità sociale – misurati con dati provenienti da fonti ufficiali, ci relega all’ultimo posto. Secondo tale studio l’Italia è un Paese sostanzialmente “opaco”, con bassa mobilità sociale, scarsi meccanismi di selezione di carriera, un sistema educativo al di sotto degli standard internazionali, un insieme di regole ancora poco chiaro e incerto, con poca trasparenza nelle relazioni tra business community e Pubblica Amministrazione.
Con il passare del tempo i gap aumentano, al pari del debito pubblico, appesantendo le nostre possibilità di competere. Quale classe dirigente si deve agire in fretta, anche con misure straordinarie, prima che il “debito meritocratico” finisca per precludere le legittime prospettive delle future generazioni, relegandoci ad un ruolo marginale nella competizione internazionale.
Il 3% della popolazione italiana costituita da manager paga il 30% di tutta l’Irpef, più di 50 miliardi di euro. Il 12% della popolazione, costituita da lavoratori autonomi, contribuisce con il 5%, meno di 10 miliardi.
Inoltre, mentre il reddito di cittadinanza esula da criteri di meritocrazia, parrebbe anche che non sia necessario avere una laurea per essere nominato Ministro.
Ce n’è abbastanza per sollecitare anche i “più tiepidi” o “distratti” e darsi una regolata, costituendo un solido fronte comune di categoria e sostenendo con impegno e convinzione il reale ruolo da svolgere, non trascurando l’interesse basilare del Paese.
01 novembre 2018