Le lezioni americane come piano di progetto
Cosa caratterizza il futuro del mondo del lavoro e di impresa? E cosa possiamo imparare dalle scienze umane per capire meglio il progresso economico e lavorativo?
Leonardo Caffo
Filosofo e scrittore
1985: le Lezioni Americane di Italo Calvino sono sei parole chiave per interpretare il millennio che verrà. Oggi, forse, resta la possibilità di usarle come piano di lavoro per un passaggio di consegne generazionale.
Il mondo è cambiato, la digitalizzazione ha avuto luogo, ciò che sapevamo del vecchio modo di intendere la vita e il lavoro si è dissolto. Leggerezza e coerenza, forse, diventano più pilastri di sguardo al passato che di futuro fine a se stesso: ma in fondo, questo è il senso di una rilettura; oggi il rischio più grande è il “nuovismo” senza comprensione dell’eredità dei giganti del passato e di ciò che è stato costruito. Il presente, soprattutto nelle aree occidentali del mondo, è stato inquadrato come un conflitto tra chi c’era prima e chi dovrebbe esserci oggi e questo è profondamente sbagliato. Non c’è innovazione, ma neanche progresso di nessun tipo, senza comprensione di ciò che ci ha preceduti. La mia idea è semplice, ed è un modo per onorare Calvino senza considerarlo un monumento privo di dialogo: inserire le humanities, specie la filosofia, dentro le aziende e i mondi del lavoro tecnico e amministrativo. In un momento di sovraccarico informativo e di trasformazione dei ruoli di lavoro, solo la capacità di orientare il carico, distribuendone il peso, rende possibile un’armonia progettuale e non uno sterile conflitto. Negli Stati Uniti, dati alla mano, i laureati in filosofia ricoprono cariche fondamentali negli apparati dirigenziali e industriali del Paese e forse anche qui in Italia, senza che ciò venga relegato alle sole risorse umane, è il momento per capire che domande di futuro, nuovi brevetti, oggetti ancora non diffusi nel mercato, possono trovare la loro sede appropriata solo dopo una riflessione puramente concettuale.
Certo, lo so, state pensando “l’ha già fatto Olivetti”: ma sbagliamo. Il modello, forse, è quello, ma oggi bisogna trovare gli strumenti nuovi e adatti per rendere lavoro, ricerca e amministrazione un’unica faccenda collettiva. Era il 1985, appunto, e oggi che di anni ne sono passati più di trenta dobbiamo capire quali siano i valori e le parole chiave con cui scandire il ritmo di un passaggio di testimone che permetta a questo lato del mondo di non venire schiacciato dai sistemi industriali come quello asiatico, che dell’assenza di valori illuministici rischiano di fare la risorsa per un lavoro tecnicamente perfetto ma umanamente svuotato di senso.
Siamo sempre là, l’essenza del progresso umano è sia Dante sia l’invenzione della banca in Toscana, sia il risorgimento sia l’invenzione del personal computer. Queste cose, e non altre, devono diventare la base per una nuova scienza di impresa, di organizzazione del lavoro, di interpretazione della specie laboriosa e curiosa che dunque siamo.
Il mondo è cambiato, la digitalizzazione ha avuto luogo, ciò che sapevamo del vecchio modo di intendere la vita e il lavoro si è dissolto. Leggerezza e coerenza, forse, diventano più pilastri di sguardo al passato che di futuro fine a se stesso: ma in fondo, questo è il senso di una rilettura; oggi il rischio più grande è il “nuovismo” senza comprensione dell’eredità dei giganti del passato e di ciò che è stato costruito. Il presente, soprattutto nelle aree occidentali del mondo, è stato inquadrato come un conflitto tra chi c’era prima e chi dovrebbe esserci oggi e questo è profondamente sbagliato. Non c’è innovazione, ma neanche progresso di nessun tipo, senza comprensione di ciò che ci ha preceduti. La mia idea è semplice, ed è un modo per onorare Calvino senza considerarlo un monumento privo di dialogo: inserire le humanities, specie la filosofia, dentro le aziende e i mondi del lavoro tecnico e amministrativo. In un momento di sovraccarico informativo e di trasformazione dei ruoli di lavoro, solo la capacità di orientare il carico, distribuendone il peso, rende possibile un’armonia progettuale e non uno sterile conflitto. Negli Stati Uniti, dati alla mano, i laureati in filosofia ricoprono cariche fondamentali negli apparati dirigenziali e industriali del Paese e forse anche qui in Italia, senza che ciò venga relegato alle sole risorse umane, è il momento per capire che domande di futuro, nuovi brevetti, oggetti ancora non diffusi nel mercato, possono trovare la loro sede appropriata solo dopo una riflessione puramente concettuale.
Certo, lo so, state pensando “l’ha già fatto Olivetti”: ma sbagliamo. Il modello, forse, è quello, ma oggi bisogna trovare gli strumenti nuovi e adatti per rendere lavoro, ricerca e amministrazione un’unica faccenda collettiva. Era il 1985, appunto, e oggi che di anni ne sono passati più di trenta dobbiamo capire quali siano i valori e le parole chiave con cui scandire il ritmo di un passaggio di testimone che permetta a questo lato del mondo di non venire schiacciato dai sistemi industriali come quello asiatico, che dell’assenza di valori illuministici rischiano di fare la risorsa per un lavoro tecnicamente perfetto ma umanamente svuotato di senso.
Siamo sempre là, l’essenza del progresso umano è sia Dante sia l’invenzione della banca in Toscana, sia il risorgimento sia l’invenzione del personal computer. Queste cose, e non altre, devono diventare la base per una nuova scienza di impresa, di organizzazione del lavoro, di interpretazione della specie laboriosa e curiosa che dunque siamo.
01 gennaio 2019