La Stanza di Harold Pinter

L’altro non è un uguale, ma un “simile” minaccioso

Daniela Savini

Componente del Gruppo Cultura, già insegnante presso Liceo Scientifico Vittorio Veneto, Milano







Quattro pareti, un’unica stanza, una porta, una finestra: è quello che basta ad Harold Pinter per realizzare un’opera completa in grado di attraversare l’animo umano, paure e comportamenti individuali e universali.
Un’ambientazione più che essenziale, che però si carica di valenze simboliche: la stanza rappresenta il luogo rassicurante, il nido di calore e di luce, in contrapposizione al freddo e al buio dell’esterno minaccioso. 

Il contatto con il mondo avviene solo attraverso una piccola finestra disposta al centro della scena, punto di fuga prospettico, verso cui la protagonista rivolge nervosamente lo sguardo, scostando la tenda.
C’è poi la porta, il confine limite tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, che assume tutta la tensione incombente di qualcosa che preme per entrare e per rientrare nelle vite dei protagonisti.

La stanza è quindi un paradiso artificiale, un rischio emotivo, perché implica un isolamento dalla società. Lo spazio familiare è un’illusoria fortezza, è come una cellula che vuole isolarsi, che è continuamente invasa e ospita una componente mnemonica esplosiva. Le quattro mura, per definizione insufficienti a nutrire l’anima umana, assumono la durezza di una prigionia fisica e mentale in grado di generare solo sospetto e aggressività.

La reclusione apparentemente ermetica della protagonista, Rose, che vive in un ritiro quasi sepolcrale con il compagno Bert, mostra presto la sua permeabilità: a interrompere un fittizio idillio di tranquillità sono degli invasori (intruders) dello spazio protetto, figure funzionali a mettere i personaggi a confronto con la loro identità.
Prima il signor Kidd, proprietario del palazzo, poi i signori Sands, una giovane coppia alla ricerca di un appartamento, portano a manifestarsi le inquietudini più profonde di Rose, preparando il terreno al finale della pièce, quando la protagonista è costretta a confrontarsi con un passato troppo a lungo rimandato: l’ultimo intruder, Riley, uomo nero cieco, l’enigmatico inquilino del seminterrato, che si rivolge alla protagonista chiamandola ‘Sal’ e intimandole di tornare a casa.

Rose, che all’inizio aggredisce verbalmente l’invasore del suo santuario, nega ogni parentela fino a che, alzandosi in piedi per toccare il volto dell’uomo, tace e nel silenzio lo accoglie. È il momento di massima tensione, in cui la reclusa accetta di aprirsi all’esterno, stabilendo un contatto con il suo salvatore. Il desiderio di mantenimento è per un istante superato dall’ansia di rinnovamento, sostenuta da un’eloquente pausa. È proprio in questo silenzio che agisce Bert, che, rientrato in casa, colpisce e tramortisce Riley con cruda violenza.

L’abbattimento brutale di Riley, che porta con sé l’eco delle violenze perpetrate ai danni delle comunità straniere – non dimentichiamo che La stanza, scritta nel 1957, rappresenta con cura i rischi emotivi insiti nell’isolamento dalla società, dalla paranoia alla xenofobia, temi caldi nell’Inghilterra degli anni Cinquanta – è l’unico modo per ristabilire quello status quo che stava per essere irrimediabilmente alterato.
Rose, pietrificata, può solo esclamare: «Non ci vedo. Non ci vedo. Non ci vedo»: la sua emblematica cecità costituisce la negazione, somatizzata, di vedere il proprio senso di colpa. Cala il buio, si chiude il sipario.

Caratterizzato dalla non consequenzialità, il dialogo dei personaggi è emblema della ripetitività e dell’assenza di logica della comunicazione quotidiana, fatta di stratagemmi orientati a evadere dal confronto con l’altro. La conversazione riproduce lucidamente – e con asciutta ironia – la prevaricazione, l’assenza di ascolto, l’indifferenza e la superficialità di un linguaggio che diventa un’arma di nascondimento di sé o un gioco perverso di sottile manipolazione altrui.
Se il marito non proferisce parola, Rose parla senza sosta, in modo compulsivo, insistendo sulla sicurezza della loro dimora e tradendo un’agitazione smisurata nei confronti dell’esterno e, ancor di più, del misterioso e oscuro seminterrato del palazzo. La frenesia verbale di Rose altro non è che una maschera per velare una realtà disposta invece a rivelarsi, in Pinter, solo nella nudità del silenzio, epurato dal chiacchiericcio superfluo e strumentale dell’uomo.

Le opere di Pinter sono complesse e stratificate, richiedono una lettura obliqua e spesso lasciano un senso di irritazione e sconcerto. È questo l’obiettivo del drammaturgo, che rinuncia alle vesti del profeta e alla chiarezza dei precetti morali a vantaggio del conflitto e del dubbio, perché il significato, nella vita come nel teatro, emerge per rapidi bagliori. A patto di non accontentarsi e di non ritenersi mai arrivati: «Ogni opera, per me, era un tipo diverso di fallimento. Ed è questo, credo, che mi ha spinto a scrivere la successiva».
Intorno alla padrona di casa si costruirà una fitta rete di sospetti e oscure allusioni: riferimenti a personaggi che non compaiono mai, criptici discorsi interrotti a metà delle frasi e soprattutto uno spazio estremamente claustrofobico contribuiscono a montare una tensione che finirà per non risolversi del tutto.
SAVE THE DATE

La Stanza di H. Pinterincontro del ciclo I Muri  si terrà 

mercoledì 2 ottobre 2024 alle ore 17:30 
presso la Sala Viscontea Sergio Zeme

Per partecipare è necessaria la registrazione su www.aldai.it

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