Mancata rivalutazione pensioni: in 30 anni bruciato un anno di vitalizio
Il nuovo studio realizzato da Itinerari Previdenziali in collaborazione con CIDA denuncia una svalutazione strutturale delle pensioni medio-alte, che danneggia ancora una volta soprattutto il ceto medio. Una lunga storia di tagli trasversali e continui, che colpisce proprio quegli 1,8 milioni di pensionati che hanno versato più tasse e contributi, minando la fiducia nel patto generazionale

Roma, 17 settembre 2025 - La Legge di Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2024 e bilancio pluriennale per il triennio 2024-2026, complice l’elevata fiammata inflazionistica del biennio 2023-2024, ha penalizzato come mai prima d’ora i pensionati con trattamenti sopra i 2.500 euro lordi (meno di 2.000 euro il netto): secondo il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali; la perdita legata alla mancata rivalutazione sarebbe quantificabile nei prossimi 10 anni in almeno 13mila euro; valore destinato a salire progressivamente fino ai 115mila per i percettori di assegni oltre i 10mila euro lordi (6.000 circa il netto) [vedi scheda 1]. Un provvedimento iniquo che, “lungi dal premiare il merito”, penalizza proprio chi ha più contribuito al sistema, e peraltro non esente da possibili profili di incostituzionalità, con particolare riferimento alle quote di pensione calcolate con metodo contributivo, il quale prevederebbe la rivalutazione piena degli assegni.
È questa la fotografia scattata da Itinerari Previdenziali e CIDA in occasione della conferenza stampa di presentazione dell’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate “La svalutazione delle pensioni in Italia”: studio che analizza gli effetti sulle rendite dei meccanismi di rivalutazione delle pensioni applicati negli ultimi trent’anni, concentrandosi soprattutto sulle novità introdotte dalle più recenti manovre finanziarie.
“In trent’anni le pensioni medio-alte hanno perso oltre un quarto del loro potere d’acquisto: una pensione da 10mila euro lordi al mese ha visto svanire quasi 180mila euro, l’equivalente di un anno intero di assegno. È il simbolo di un sistema che punisce chi ha dato di più, mortifica i contribuenti più fedeli e incrina il legame di responsabilità tra generazioni. – fa commentato Stefano Cuzzilla, Presidente di CIDA - Le pensioni non sono un privilegio, sono salario differito, il frutto di una vita di lavoro e tasse pagate. Sono anche il più grande patto intergenerazionale che un Paese possa stipulare: chi lavora oggi sostiene chi ha lavorato ieri, nella certezza che domani il proprio impegno sarà riconosciuto. Chiediamo una scelta politica chiara: regole stabili, certezza del diritto e rispetto del merito. Perché senza fiducia non può esserci futuro né per i pensionati né per i giovani che oggi contribuiscono al sistema”.
La travagliata storia della perequazione in Italia: una lunga sequenza di tagli bipartisan
Allo scopo di proteggere il potere d’acquisto dei pensionati e garantire loro un tenore di vita adeguato e costante nel tempo, tutti i principali sistemi pensionistici internazionali prevedono adeguamenti degli assegni ai prezzi e/o ai salari. In Italia è dunque attuata la cosiddetta “perequazione automatica”, aumento periodico dell’assegno collegato all’inflazione, negli ultimi 30 anni oggetto di numerosi provvedimenti legislativi, che rappresentano di fatto e in negativo un unicum tra i Paesi OCSE [vedi scheda 2]; provvedimenti spesso perfino in contraddizione tra loro ma, in linea di massima, accomunati dal principio secondo il quale le pensioni di importo inferiore tendono a godere di un meccanismo più favorevole e, nella sostanza, economicamente più generoso. Se, in alcuni periodi gli assegni non hanno quindi ricevuto alcuna perequazione, in altri hanno subito indicizzazioni di varia misura e applicate secondo criteri differenti, che si sono tramutate in una riduzione strutturale, e non più recuperabile, del valore delle prestazioni.
«Rispetto alle persone in età attiva – ha spiegato il Professor Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e curatore dello studio – i pensionati hanno meno possibilità di difendersi dall’inflazione, tanto che il mantenimento del loro potere d’acquisto è affidato quasi esclusivamente ai meccanismi di indicizzazione: ecco perché sarebbe innanzitutto importante avere regole stabili nel tempo e, ancora di più, eque».
Eppure, come rilevato nel corso della conferenza stampa promossa da CIDA, «malgrado l’avvicendarsi di esecutivi di varia appartenenza politica e tecnica, negli i anni tagli, blocchi e “contributi di solidarietà” si sono susseguiti in modo sistematico determinando una perdita crescente del potere d’acquisto anche del 10-12% nell’arco di un decennio, e soprattutto – ha specificato Cuzzilla - diventando più una leva contabile che uno strumento di giustizia previdenziale».
«Per le quote pensionistiche calcolate con il metodo contributivo, destinate a crescere nel tempo, il rallentamento o il congelamento, anche temporaneo, della rivalutazione è da considerarsi alla stregua di un’imposta. Con il pensionato che riceve così non solo meno di quanto gli spetterebbe ma anche meno di quanto gli sarebbe necessario per contrastare l’aumento dei prezzi al consumo», la precisazione del Professor Brambilla. [vedi scheda 3]
I numeri delle svalutazioni più recenti
Con il 2022 il quadro sembrava in realtà essersi fatto più favorevole. Scaduta nel dicembre 2021 la disciplina transitoria introdotta dalla legge n. 147/2013 (più volte rinnovata), è stato infatti ripristinato lo schema originariamente stabilito dalla normativa del 1996, che prevedeva una rivalutazione a scaglioni al 100% dell’inflazione per la quota di pensione di importo fino a 4 volte il trattamento minimo INPS (per il 2022 pari a circa 525 euro al mese); al 90% dell’inflazione per l’importo compreso tra 4 e 5 volte il TM; al 75% dell’inflazione oltre 5 volte il TM. Con l’occasione della successiva manovra finanziaria, il governo presieduto da Giorgia Meloni è però intervenuto sul biennio 2023-2024, prevedendo un meccanismo che, se da un lato rivalutava pienamente le pensioni sociali, gli assegni sociali e le pensioni al minimo (prevedendone addirittura un ulteriore incremento straordinario del’1,5%, elevato al 6,4% per i pensionati di età pari o superiore ai 75 anni, per il 2023, e del 2,7% per il 2024), dall’altro peggiorava lo schema di rivalutazione delle prestazioni oltre 5 volte il TM. Nel dettaglio, le percentuali di rivalutazione previste sono state: del 100% per i beneficiari di prestazioni fino a 4 volte il TM, incrementato appunto di un punto e mezzo percentuale in più rispetto all’inflazione effettiva; dell’85% per le pensioni da 4 volte a 5 volte il TM; del 53% per gli assegni tra le 5 e le 6 volte il TM, al 47% tra le 6 e le 8 volte, al 37% tra le 8 e le 10 volte e al 32% per gli importi superiori. Valore, quest’ultimo, ulteriormente ridotto al 22% per l’anno successivo, quando le modifiche alla perequazione hanno in effetti riguardato i soli percettori di assegno superiore le 10 volte il Trattamento Minimo.

«Cosa ancora più grave – puntualizza Brambilla – è che la perequazione sfavorevole è stata applicata sull’intero reddito pensionistico e non per scaglioni: giusto per fare un esempio riferito al 2023, un pensionato con una rendita pari tra 2.627 e 3.152 euro si è visto rivalutata l’intera pensione al 4,3% (a fronte di un tasso di inflazione definitivo dell’8,1%), e non la sola quota eccedente le 5 volte il TM». Solo per il 2025, di pari passo con l’attenuazione dell’impennata inflattiva, si è di fatto tornati all’applicazione a scaglioni su uno schema a 3 fasce: il tasso di inflazione provvisorio dello 0,8% sarà applicato al 100% fino a 4 volte il TM INPS, al 90% tra le 4 e le 5 volte e al 75% al di sopra delle 5 volte il Trattamento Minimo dell’Istituto. Il che, tuttavia, non rimedia a quanto accaduto nel biennio precedente: come puntualizza la pubblicazione, non si tratta di una perdita circoscritta a 2023 e 2024 ma di una sottrazione di reddito pensionistico permanente nel tempo e destinata anzi a trascinarsi anche negli anni successivi.
Il grande paradosso: più paghi, più perdi
Considerate le mancate indicizzazioni patite dal 2012 al 2022, i trattamenti pensionistici oltre le 10 volte il minimo hanno perso rispetto a un’inflazione totale dell’11,6% circa 9 punti percentuali. Svalutazione cui si aggiunge quella del triennio 2023-2025, ancora più ingente per l’effetto combinato del boom dell’inflazione e dei meccanismi di perequazione introdotti dall’esecutivo attualmente in carica: in questo caso, le perdite ammontano a circa il 12% e, sommate alle precedenti, determinano una svalutazione delle pensioni di oltre il 21% nell’arco di 14 anni. Volendo fare un esempio concreto, ciò significa che in questo periodo di tempo una pensione da 10.000 euro lordi (circa 6.000 netti) ha perso quasi 178mila euro, mentre una pensione da 5.500 ero lordi mensili (circa 3.400 euro netti) ha subito una perdita pari a circa 96mila euro. «Tenuto conto dell’effetto trascinamento, questo significa – aggiunge Brambilla – che i cosiddetti pensionati del “ceto” medio, oltre a sobbarcarsi il grosso dei 56 miliardi di IRPEF in arrivo dalle pensioni, si vedranno ingiustamente sottratti altri 45 miliardi circa».
«Siamo di fronte a una contraddizione evidente – ha spiegato Cuzzilla -. 1,8 milioni di pensionati con redditi da 35mila euro in su, poco meno del 14% del totale, garantiscono da soli il 46,33% dell’IRPEF dell’intera categoria, eppure sono proprio loro i più colpiti dai tagli e dalla mancata rivalutazione. Al contrario, chi ha versato pochi o nessun contributo è stato pienamente tutelato dall’inflazione. È un autentico rovesciamento del principio di equità! Sostenere i più fragili è un dovere, e la classe dirigente non si è mai sottratta a questa responsabilità, ma diventa un’ingiustizia quando la solidarietà ricade sempre sugli stessi mentre l’evasione resta impunita. Ogni anno il fisco perde circa 90 miliardi di euro, con il 65% dell’IRPEF che non arriva all’Erario: finché questa voragine non sarà chiusa, non potrà esserci un sistema previdenziale né giusto né sostenibile»
Una giurisprudenza che ha più volte legittimato i tagli
Numeri che spiegano facilmente come mai Cassazione e Suprema Corte siano state spesso chiamate a esprimersi sulla legittimità dei meccanismi di perequazione che si sono succeduti negli ultimi 15 anni, così come accaduto lo scorso gennaio quando, con la sentenza n.19 del 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato legittimo il meccanismo di raffreddamento della rivalutazione per fasce di reddito, previsto dalla Legge di Bilancio 2023, e non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in merito all’art. 1, comma 309, della Legge di Bilancio n. 197 del dicembre 2022. «Si tratta della terza volta in 11 anni che i giudici incaricati si esprimono in questi termini, e proprio questo – suggerisce il Professore – dovrebbe far riflettere: in occasione delle sue precedenti pronunce, infatti, la stessa Corte aveva infatti raccomandato che il “taglio” subito dalle pensioni di importo medio-alto fosse di breve durata, proporzionato e non ripetitivo».
Una condizione, soprattutto quella relativa alla non ripetitività, evidentemente non rispettata cui si aggiungono ulteriori questioni di natura tecnica ed etica da non sottovalutare. Nell’ultima pronuncia, in particolare, la Corte afferma che la mancata rivalutazione non è da considerarsi un prelievo forzoso, ma una misura economico-previdenziale che l’esecutivo può discrezionalmente decidere di mettere in campo, con il fine di favorire le pensioni più basse e al contempo portare avanti una progressiva riduzione del debito pubblico. E, se l’obiettivo di contenere la spesa resta in sé apprezzabile, severa è la condanna della pubblicazione nei confronti della scelta di farlo toccando ancora una volta la perequazione automatica, ormai utilizzata dallo Stato come leva contabile per fare Cassa, alla stregua di un prelievo forzoso: come possono i giovani fidarsi del sistema previdenziale se le regole del gioco sono destinate a cambiare continuamente, minando la certezza della correlazione tra versamenti contributivi e futuro importo degli assegni?
«La fiducia del sistema previdenziale si regge sulla certezza del diritto e sulla stabilità delle regole - ha concluso Cuzzilla -. Colpire chi ha versato quarant’anni di contributi significa rompere il patto sociale e generazionale. Non è un caso che la Corte Costituzionale abbia richiamato l’attenzione del legislatore su questi squilibri, e che il Tribunale di Trento abbia appena rinviato la questione per un nuovo esame. È un segnale che ci dà un cauto ottimismo: rimediare è possibile. Ma serve da un lato una scelta politica chiara: garantire la rivalutazione come avviene in tutti i principali Paesi europei e fare della prossima legge di bilancio una vera occasione di giustizia per quella parte del Paese che ha sempre lavorato, contribuito e pagato le tasse. Dall’altro lato serve una Corte coraggiosa, che oltre a tutelare giustamente il bilancio dello Stato, abbia il coraggio di analizzare nel dettaglio le tematiche previdenziali e faccia emergere storture che nelle ultime sentenze sono state illogicamente legittimate».
L’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate “La svalutazione delle pensioni in Italia” è disponibile per la libera consultazione sul sito: https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home.html

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