L’Oasi di Sant’Alessio

Un piccolo eden a due passi da Milano

Il Castello © Claudio Pasi

A cura dell'Oasi Sant'Alessio

Nel 1973 Antonia e Harry Salamon, ora coadiuvati dal figlio Giulio e dal nipote Niccolò, iniziarono l’impresa che sarebbe poi diventata l’Oasi di Sant’Alessio. Avevano acquistato il castello di Sant’Alessio e dieci ettari di terra agricola con lo scopo di iniziare un allevamento in cattività di alcune specie allora ritenute, a torto o a ragione, in grave pericolo di estinzione o almeno perse, apparentemente per sempre, dall’Italia. Il piano era di liberare gli esemplari eventualmente prodotti. Le specie scelte erano il falco pellegrino, la cicogna bianca, il cavaliere d’Italia e l’oca selvatica. Il progetto era allora controverso: alcune di queste specie – il falco pellegrino e il cavaliere d’Italia per esempio – non erano mai state riprodotte dall’uomo e in molti negavano che ciò fosse possibile. Un’insufficiente fiducia nell’importanza della genetica nei comportamenti animali faceva credere a molti che gli esemplari nati in cattività non si sarebbero prestati al ritorno alla vita selvatica e, come se non bastasse, alcune autorità pubbliche e molti loro sostenitori ritenevano che solo esse stesse potessero acquisire le competenze necessarie a questo tipo di imprese.

L’Università di Pavia, dichiaratasi in un primo tempo interessata a collaborare, tanto da arrivare alla stesura di un protocollo, preferì al dunque defilarsi. Il caso aveva voluto che, proprio in quegli anni, un gruppo di scienziati dell’Università Cornell (Ithaca, New York), facenti capo al professor Thomas Cade, stava iniziando un’operazione parallela sul falco pellegrino, la più contestata delle specie in questione. Forti anche del know-how, liberamente partecipato dagli Americani e certi delle buone ragioni dietro il progetto, Antonia e Harry decisero di proseguire.

Voliera grande © Claudio Pasi

Voliera grande © Claudio Pasi

Un aiuto morale di tutto rispetto venne da Roberto Gatti, Assessore all’Ambiente della Provincia di Pavia, che promosse una convenzione, questa andata poi a buon fine, fra l’Istituzione pubblica stessa e quella che, nell’occasione, divenne Associazione senza scopo di lucro, denominata Società Pavese di Ornitologia.
Alcune cicogne allevate a Sant’Alessio si trasferirono a Pavia, dove vissero felicemente, per la gioia degli abitanti, per alcuni anni. Altri esemplari delle varie specie ripopolarono altri ambienti della provincia.

Le nascite dei falchi pellegrini erano messe talvolta in dubbio, ma non dalle Autorità regionali che, con la collaborazione di Harry Salamon, avevano presto dato i natali a una legge regionale, ragionevolmente severa, sull’allevamento in cattività dei rapaci. Regolamento poi sostanzialmente adottato da altre regioni italiane e rimasto in uso fino all’avvento delle leggi internazionali che vanno sotto il nome di CITES. Leggi complesse, ma non diverse, nella filosofia, da quella a suo tempo emanata in Lombardia, forse la prima al mondo sulla materia.

Nel 1990 tutte le polemiche si placarono di colpo, quando Harry Salamon, con l’aiuto sostanziale dell’Ufficio Fauna della Regione Lombardia e con la partecipazione, come parte scientifica, di Silvano Toso dell’INFS (già INBS e ora ISPRA), ottenne di importare in Italia le tecniche di analisi del DNA, per la certificazione della correttezza delle genealogie dichiarate dagli allevatori. Questa vera rivoluzione dei rapporti fra allevatori a Autorità rese possibile, a breve, la collaborazione fra la LIPU, allora diretta da Marco Lambertini (poi diventato direttore internazionale del WWF) e Sant’Alessio. Si stipulò un accordo secondo il quale l’Oasi di Sant’Alessio – così Lambertini stava per denominarla – avrebbe donato alla LIPU tutto il prodotto disponibile dei suoi allevamenti, anno per anno, che la LIPU avrebbe poi reintrodotto nelle sue oasi.
Cicogna bianca © Claudio Pasi

Cicogna bianca © Claudio Pasi

Nel 1994, proprio su idea di Lambertini, l’Oasi divenne accessibile alle visite. Bisogna qui precisare che l’Oasi – lasciateci a questo punto chiamarla così – non aveva mai ricevuto, se non in infima parte e solo una volta, nè mai avrebbe ricevuto alcun contributo pubblico. Il progetto quindi di trasformare in spettacolo culturale quanto si andava facendo a Sant’Alessio a favore della conservazione della natura, era a suo modo rivoluzionario. Le leggi italiane, uniche nel mondo progredito e benestante, scoraggiano di fatto le donazioni agli Enti benefici, che per converso, godono di sostegno (e controllo, diretto o indiretto) pubblico. Trasformare in servizio un’impresa di pura conservazione, se fosse riuscito, avrebbe potuto rappresentare una nuova via per finanziare la conservazione. Se il progetto darà i risultati sperati, lo vedremo negli anni a venire.

L’apertura alle visite rese opportuno ampliare la collezione di specie ospitate. Ma l’Oasi volle mantenere l’impostazione di essere di supporto alla conservazione. Ci si dedicò dunque alla spatola europea, allora assente dal nostro Paese, e al mignattaio, di cui da poco era scomparsa l’ultima coppia italiana, nidificante in Piemonte. Si lavorò anche su alcune specie tropicali, scegliendo quelle su cui si ritenne opportuno collaborare con le ricerche internazionali miranti alla tutela di queste.
In alcuni casi vi sono infatti specie endemiche, cioè presenti in ambienti molto ristretti – un’isola, una valle, … – spesso in pericolo, per le trasformazioni necessarie alla vita dell’uomo. In alcuni di questi casi – facciamo l’esempio dello storno di Rotschild che si sa bene come allevare – non nascono difficoltà e infatti esso è attualmente in corso di reintroduzione nel nord dell’isola di Bali, con ottimo successo. In altri, purtroppo più numerosi, le tecniche di allevamento sono ignote. Facciamo l’esempio del colibrì Sephanoides fernandensis, endemico dell’isola Juan Fernandez (quella del vero Robinson Crusoe), di cui, a causa della trasformazione della foresta in coltivazione della canna da zucchero, restano cinquanta esemplari. Riuscire a istituire dei protocolli affidabili per questa famiglia, di cui, compresa l’Oasi, si contano meno di cinque allevatori su scala mondiale, assicurerebbe migliori prospettive per la sopravvivenza di quella specie, in attesa di trovare un giusto compromesso che ne renda possibile la sopravvivenza in natura.
Colibrì amazilia

Colibrì amazilia

Nell’Oasi, le specie, quando possibile, si mantengono e allevano in ambienti che sono la riproduzione più fedele possibile di quelli naturali. Per i colibrì, per esempio, si ricorre alla presenza di fiori delle specie botaniche di cui si nutrono in natura e che, a loro volta, attirano gli insetti necessari al completamento della loro dieta. 

Marginalmente si scoprì che, nonostante una presenza preponderante del cibo naturale, i colibrì continuavano a fare uso del succedaneo artificiale. Si tratta di un nettare sofisticatissimo e completo anche della parte proteica (assente nel nettare naturale dei fiori e che i colibrì, in natura, completano appunto con la predazione di insetti). Apparentemente, la cosa presenta solo una deficienza estetica o, se si vuole, di impostazione teorica. 

Ma questa piccola scoperta fu subito combinata con la conoscenza che, nelle Americhe, per incoraggiare il turismo o semplicemente per passione, i meravigliosi uccelli – essenziali, incidentalmente, per l’impollinazione di gran parte delle piante del centro e sud delle Americhe – sono attirati con acqua zuccherata. 

Si sapeva, però, dall’esperienza dei primi decenni di importazione in Europa di colibrì vivi, che una dieta di sola acqua zuccherata dà ai colibrì solo qualche mese di vita. L’Oasi quindi, in collaborazione con il Centro Colibrì di Udine, propose, nel 2019, all’Universidad Central dell’Ecuador, una ricerca congiunta. Fu presto raggiunto un accordo e si iniziarono i lavori per mettere a punto una ricetta molto economica e sufficientemente nutriente per sostituire il semplice zucchero. La ricetta, quando sarà sufficientemente sperimentata, sarà resa pubblica, per l’autoconfezionamento da parte degli interessati.

Ma con l’inizio dei lavori sul campo, si fece una scoperta inquietante. Indipendentemente dalla qualità del nettare artificiale, la disponibilità di un cibo in misura illimitata, attira numeri eccessivi di esemplari. Gli studi sono ancora in corso, con la collaborazione della Facoltà di Veterinaria dell’UCdE, ma si può già dire che talune concentrazioni di esemplari superano di decine di volte quelle fisiologiche. Con conseguenze potenzialmente devastanti per la riproduzione, che comporta l’allevamento dei piccoli ad esclusiva base insettivora. Così la ricerca si è estesa alla messa a punto di protocolli per la creazione di giardini per gli uccelli, per sostituire, con vantaggi per il turismo culturale e per le tasche degli operatori, il prodotto artificiale.

In breve, questa è l’Oasi di Sant’Alessio.


Oasi di Sant'Alessio
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