Come si arriva ai dazi di Trump e ai loro effetti su crescita economica e commercio mondiale

Dazi: annunci, contro-annunci, smentite e rinvii, fino all'accordo sul 15% per i prodotti europei. Gli effetti più evidenti sono una caduta dei prezzi dei mercati finanziari, dei titoli di stato americani, del dollaro (che perde circa il 15% di valore nei confronti dell’euro), del PIL nei Paesi esportatori ma soprattutto negli Stati Uniti

Pasquale Ceruzzi

Presidente Commissione Studi e Progetti ALDAI-Federmanager
L'attuale situazione economica, politica e sociale proviene da decisioni fondamentali prese dagli Stati Uniti negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Allora gli USA erano l’indiscussa potenza economica e militare che aveva fortemente contribuito a sconfiggere i Paesi dell’Asse (Germania, Italia e Giappone). Forti del loro surplus su produzione industriale, economia, finanza e commercio mondiale, potevano permettersi qualunque scelta ma decisero di rompere definitivamente con il “protezionismo, i dazi e le barriere doganali” che avevano causato la crisi del 1929 e dei successivi anni ’30. In particolare, scelsero proprio l’opposto: la multilateralità, il globalismo, il libero commercio di beni, servizi e persone su base planetaria e lo garantirono servendosi di un apparato militare potente e avanzato.
Furono create anche le condizioni regolatorie più idonee al funzionamento di questo sistema: 
  • gli Accordi di Bretton Woods (1944 – Il Sistema Monetario Internazionale – che portò poi al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale).  
  • Il GATT (1947 – Il General Agreement of Tariff and Trade – ovvero il sistema che regolava e aboliva dazi e barriere doganali). 
Il sistema appena descritto, nonostante alcuni squilibri, fu in grado di garantire al mondo crescita economica e sviluppo sociale per circa 80 anni (includendo in questo progresso larghe fette della popolazione asiatica, a cominciare da Cina e India). 

Qualche dato numerico per valutare: 
  • la crescita demografica che dal 1974 al 2022 è passata da 4 a 8 miliardi di persone; 
  • il PIL pro-capite che è aumentato di 15 volte negli ultimi 2 secoli con un’accelerazione significativa di 5 volte negli ultimi 30 anni;
  • l’aspettativa media di vita che è arrivata a 73 anni nel 2024 (era 46 anni nel 1950). 
Tutto apparirebbe così bello se non ci fossero state la crisi economico-finanziaria del 2008 (“crisi dei mutui subprime”) e il fenomeno dilagante del “globalismo” (che ha dislocato produzioni di ogni genere nei Paesi a basso costo di manodopera, Cina e Asia in genere, dal 1990 a oggi). 
L’effetto indesiderato di questi fenomeni è un elevato numero di disoccupati in tutti le Nazioni avanzate (Stati Uniti inclusi). Chi paga lo scotto più alto sono soprattutto gli operai con basso livello di scolarizzazione che hanno pochissime possibilità di riqualificarsi e di reimpiegarsi in settori alternativi alle loro specializzazioni (acciaio, meccanica, automotive). Questa classe di lavoratori (ad esempio quelli della Rust Belt americana) ritiene che siano stati il globalismo, l’automazione industriale e l’immigrazione ad aver messo in crisi la loro attività lavorativa. Nemmeno prende in considerazione la possibilità di una riqualificazione professionale e di un inserimento in settori produttivi diversi da quelli di provenienza.

Coglie, così, l’opportunità Donald Trump, che promette di attuare una politica di dazi protettivi e di rimpatrio di produzioni traslocate in Paesi a basso costo. Anzi, rincara la dose affermando che a loro non verrà richiesto alcun sacrificio perché ci penserà lui a risolvere il problema (ridando una speranza con il Make America Great Again – MAGA). Non ci riesce nel suo primo mandato (2017-2021) nonostante i dazi soprattutto alla Cina e all’Europa e la riduzione di tasse (che favorisce però i ceti più abbienti). 
Ci riprova ancora all’inizio del suo nuovo mandato, a partire da febbraio 2025. È una grandinata di annunci, contro-annunci, smentite e rinvii di cui si fa fatica a tenere conto e i cui effetti più evidenti sono una caduta brusca dei prezzi dei mercati finanziari, dei titoli di stato americani, del dollaro (che perde circa il 15% di valore nei confronti dell’euro), del PIL nei Paesi esportatori ma soprattutto negli Stati Uniti (vedere tabelle 1, 2, 3 e 4 per un immediato riscontro numerico).

In conclusione, i dazi sono tasse sui beni e sui servizi importati che finiscono per far aumentare il costo e il relativo prezzo finale (se l’aumento non viene assorbito dal produttore) al fine di scoraggiarne la domanda e incamerare gettito fiscale. Gli effetti negativi sono preponderanti su quelli positivi e sono prevalentemente a carico dei Paesi esportatori (vedere tabella 5). Tutto questo è estremamente chiaro al Presidente di Confindustria Orsini che dichiara: “…i dazi al 10% annunciati dagli Stati Uniti, insieme alla svalutazione del dollaro, comporterebbero un impatto reale del +23,5% sui prezzi dei prodotti italiani, con una perdita stimata di 20 miliardi di export e 118mila posti di lavoro entro il 2026”.

Tuttavia, il peso specifico degli effetti economici e sociali potrebbe essere più tragico per i Paesi che impongono i dazi (come promemoria è sempre utile ricordare la crisi americana del 1929 seguita da quella mondiale dei successivi anni ’30). Siamo in molti ad essere consapevoli di questo pericolo, ma l’attuale amministrazione americana ritiene di poter ricavare dai dazi gettito tributario addizionale per 500 miliardi di dollari all’anno per i prossimi 5-6 anni (il noto Big Beautiful Bill). Con questo vorrebbe ridurre l’enorme debito pubblico americano, ridurre il livello generale delle imposte e sostenere l’occupazione dei ceti più poveri. I primi risultati non danno molto conforto a questa posizione, ma per il momento una vera correzione della rotta non è all’ordine del giorno!
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