Brexit… e poi?
La colpa è sempre di qualcun altro… tutte le grandi firme del giornalismo italiano si sono esercitate in commenti più o meno condivisibili sull’uscita della Gran Bretagna dall'Europa; così hanno fatto e così stanno facendo ancora anche gli esperti economici e finanziari, ciascuno dei quali formula previsioni spesso catastrofiche, raramente ottimistiche.
Edoardo Lazzati
Presidente Federmanager Pavia
La politica sta dicendo di tutto e di più. Forse è ancora sotto choc.
Ce ne guardiamo bene, dunque, dall’aggiungere il nostro umile pensiero da vecchio manager, a questo ciclone di opinioni che travolgono il cittadino comune.
Ci sembra solo opportuno portare qualche piccola testimonianza e ricordo personale, avendo vissuto tutta la fase dell’entusiasmo dei grandi ideali dell’Europa unita e le delusioni del grande impegno della burocrazia di Bruxelles a definire lunghezza del cetriolo, calibro delle ciliegie e sciocchezze del genere.
Così come, modestamente, ci sembra ora una sciocchezza disquisire sul popolo sovrano, sufficientemente o meno, sul piano culturale, preparato a decidere questione così tanto complessa. Ma come, si parla sempre del popolo, questa nobile entità solo quando fa comodo, e poi lo si accusa di scarsa cultura; ma tutte le persone hanno pari dignità oppure no? Almeno nel voto? In ogni caso sono chiacchiere al vento; resta il fatto, certamente sorprendente ma possibile, del risultato del voto inglese con il quale dobbiamo tutti fare i conti.
A proposito ci sorge spontaneo un quesito: ma possibile che una tecnostruttura europea a dir poco super strutturata, non abbia predisposti gli scenari conseguenti all’uscita di uno stato membro? Ciascuno dice la sua; la sensazione è che si brancoli nel buio tra il nero pessimismo ed il blando ottimismo di maniera; non sarebbe meglio smetterla di volere uniformare con normative, talvolta assurde ed incomprensibili, aspetti secondari della nostra vita, e concentrare le numerose risorse (dai costi molto elevati) alle problematiche essenziali?
Ricordo, liceale negli anni Cinquanta, con quanta passione si svolgevano temi in classe sul futuro di una Europa senza più guerre, senza barriere, senza frontiere; e si ipotizzava un esercito unico, una voce forte ed autorevole nel confronto del resto del mondo. Si era convinti di sognare, ma perché non credere in un sogno? Ma il sogno non si è avverato completamente.
Poi negli anni le prime convinte adesioni, la caduta del muro di Berlino, l’entrata forse precipitosa di troppi Paesi dell’Est, lo scontro con la Russia per l’Ucraina e relative sanzioni. Troppe differenze storiche, culturali, economiche, non metabolizzate, non affrontate con la dovuta cautela e gradualità; talvolta si è avuta l’impressione di essere più sensibili all’ingrossamento della compagnia che alla sintonia sui problemi essenziali.
Il nostro Paese, socio fondatore, non è esente da qualche responsabilità; non ha avuto mai il coraggio di opporsi alla formazione di un Parlamento farraginoso, numericamente ridondante; i partiti hanno visto la grossa occasione di poter piazzare con compensi sproporzionati al ruolo ed alla nostra situazione economica, un bel numero di propri adepti.
Due sedi lussuose e ridondanti costosissime, solo per accontentare la Francia, con l’inutile sede di Strasburgo. E frattanto esplodono la globalizzazione della crisi economica, le migrazioni di tipo biblico ed aumenta il numero degli indigenti. Ma è possibile che soltanto ora, con l’uscita inglese, i Governi si pongano delle domande cruciali?
Del resto abbiamo sempre cercato di non irritare nessuno dei partner importanti, impegnati come siamo sempre stati ad aumentare le imposte, ad aumentare il debito pubblico, ad aumentare l’inefficienza della pubblica amministrazione e così via facendo. Come avremmo potuto pretendere dagli altri quella sobrietà, quella efficienza e quella solidarietà che non abbiamo mai realizzato in casa nostra? Davvero non si era capito che con gli inglesi non si scherzava e che il malcontento verso questo tipo di Europa stava radicandosi pericolosamente? Ora ci piacerebbe vedere all’opera raziocinio, freddezza, rapidità decisionale, non inutili ripicche, ricette improvvisate.
E l’Italia? Il nostro Paese ha un cammino obbligato per acquisire il peso che gli spetterebbe: imboccare la strada di riforme vere, strutturali, con un piano straordinario di privatizzazioni per ridurre sensibilmente il debito pubblico. Così si conquista peso e credibilità. Ma ahimè incombono il referendum di ottobre e la legge elettorale. Poi come al solito si vedrà.