Kafka in Lombardia: il processo
Una piccola storia di ordinaria burocrazia e giustizia.
Giuseppe Colombi
Consigliere ALDAI-Federmanager
Ci sono sistemi logici che, ormai introiettati, costituiscono la base implicita della nostra vita quotidiana: pensiamo all’alfabeto, o al sistema metrico decimale, di essi non potremmo più fare a meno. Così dovrebbe essere anche per le leggi, ma qui la cosa si complica, ed esse davvero non sono uguali per tutti. Anche perché, nel nostro sventurato Paese, le venti regioni hanno adottato specifiche regole locali, col risultato di generare un vero e proprio manicomio normativo.
Migliorare l’ambiente, con permesso
Successe così un giorno che in una provincia del mezzogiorno lombardo una persona ben conosciuta allo scrivente, un omino che era stato dirigente, concluso il suo cammino professionale, decise che avrebbe avuto tempo per risistemare un po’ di cose. Nella convinzione che sarebbe bene lasciare il mondo in condizioni migliori di quelle in cui lo si è trovato, si concentrò su un suo piccolo terreno ormai incolto: quell’appezzamento era stato un vigneto di gran pregio, e non gli sarebbe dispiaciuto, dopo un trentennio di abbandono, riportarlo agli antichi splendori.
Negli anni il sito del vigneto, molto panoramico, era diventato un luogo conosciuto come “Drive In”, in cui si appartavano coppiette che poi abbandonavano rifiuti non biodegradabili e numerose volte il proprietario aveva dovuto raccogliere e smaltire amianto, copertoni e altri materiali ingombranti portati da qualche mascalzone, che per scaricare quelle porcherie rompeva regolarmente qualsiasi recinzione installata.
Detto, fatto: l’omino chiese l’aiuto di un giovane amico locale, che a sua volta gli suggerì, come prima cosa, di inoltrare al comune di competenza una domanda circostanziata.
Così avvenne: correva il gennaio 2015. Un cortese geometra comunale, date le indicazioni, raccolse la formale richiesta di ricostituire il vigneto, e dopo un tempo ragionevole il nostro ex-dirigente ottenne un permesso comunale con tutti i bolli, con l’autorizzazione scritta ad abbattere la rara vegetazione arborea nata nel luogo, e con l’intesa che si sarebbe fatto carico di ripiantare altrettante essenze. Il permesso specificava che quella parcella catastale non era inclusa nel censimento provinciale delle zone boschive.
Il lavoro di ripulitura si rivelò complesso e dopo qualche giorno si decise che serviva una ruspa. Così venne un trattorista col suo mezzo meccanico e la pulizia procedette in fretta.
Arrivano le guardie
Ma verso la fine del pomeriggio una telefonata preoccupata raggiunse l’ex-dirigente: era arrivato un benemerito corpo di tutela ad interrompere i lavori ed occorreva produrre in fretta il permesso. Pochi minuti dopo egli era sul luogo.
Capeggiava quelle guardie il solerte sottufficiale: questo personaggio era ben noto in zona, specie da quando aveva sanzionato pesantemente per “furto di bene pubblico” il proprietario di certe mucche che si erano abbeverate ad un fosso. Si sapeva poi che un congiunto del solerte sviluppava studi di fattibilità agro-forestali: era evidente l’analogia inversa col film “Il monello” di Charlie Chaplin, in cui il babbo vetraio passava a riparare i vetri rotti dal figliolo con la fionda.
Non ci fu verso, inutile mostrare il regolare permesso, inutile spiegare le buone intenzioni, inutile tutto.
Inesorabile, il solerte sottufficiale misurò, verbalizzò e diede una prima sommaria indicazione: l’oblazione dell’ammenda prevista era pari a circa 11mila euro, dieci volte il valore commerciale massimo del terreno e colpiva sia il proprietario che il malcapitato trattorista.
Il giorno successivo fu inutile anche la verifica presso il comune che aveva concesso l’autorizzazione: chi aveva apposto la firma, se ne lavò le mani.
Si ricorre alla Provincia
Perplesso, il nostro omino cercò di analizzare la legge regionale: si trovò di fronte ad un testo lunare di 113 articoli e più di 800 commi… per un comune mortale era impossibile capire come un terreno che era stato un vigneto, per cui si continuava a pagare imposta come tale, dopo trent’anni fosse diventato altra cosa, malgrado nei piani di dettaglio non risultasse come area boschiva. Poi, che un proprietario intenzionato a fare un innocuo restauro in terra propria, potesse essere magari rovinato da una sanzione sproporzionatamente maggiore del valore dell’immobile stesso, sembrava demenziale.
Un amico saggio suggerì e patrocinò l’intervento di un agronomo (non il congiunto del solerte sottufficiale) per un dettagliato ricorso alla Provincia. Occorse del tempo e del lavoro: il ricorso fu inoltrato, ci fu un incontro con i due uffici provinciali responsabili (agricoltura e paesaggio), fu richiesto al proprietario di ricostituire “il bosco” piantando anche quello che non c’era prima, come avvenne, poi fu effettuato “il collaudo”. Alla fine il ricorso venne accolto ed il provvedimento archiviato. Tutto questo avveniva nel 2015.
Vicenda finita dunque: costi per qualche migliaio di euro, ma incidente chiuso?
La sorpresa
Neanche per sogno: il 16 marzo 2017 è stato notificato all’ignaro ex-dirigente ed ugualmente al trattorista un decreto penale che li ha condannati a quindici giorni di detenzione commutati in 7.250 euro di ammenda ciascuno. All’insaputa degli interessati, che il tribunale non ha contattato perché questa è la nuova procedura, vi è stato dunque un simil-processo di primo grado (con avvocato d’ufficio), tramutatosi in condanna, e ci sono solo trenta giorni per opporre ulteriore ricorso. Perché il magistrato non ha considerato l’archiviazione del provvedimento da parte della Provincia? Mistero. Di corsa ci si è rivolti ad un avvocato di valore, il ricorso è stato approntato ed inviato nei tempi previsti, il processo iscritto a ruolo. La prima udienza, cosiddetta di smistamento, è stata rimandata da febbraio a ottobre 2018: il dibattimento avverrà il 3 maggio 2019, oltre quattro anni dopo i fatti.
In tribunale
Così è stato: l’udienza ha visto la testimonianza del solerte sottufficiale, ormai pervenuto (in modo piuttosto repentino) alla pensione e non proprio memore dei fatti, poi l’arringa del difensore.
Il giudice, dopo una “camera di consiglio” di pochi attimi, ha mandato pienamente assolti gli imputati.
Per una persona che in settant’anni di vita non ha mai affrontato un’aula di tribunale è la fine di un incubo durato più di quattro anni e la cancellazione dell’offesa di una condanna penale per aver fatto in casa propria qualcosa che voleva essere utile.
Le spese finali raggiungono l’ammontare dell’ammenda inizialmente prevista.
Qualche considerazione finale
Tutto questo avviene nella civile Lombardia, dove non ci sono né “vacche inselvatichite” che invadono terreni privati che magari fanno gola a qualcuno, e nemmeno c’è il commissariamento di ASL che da decenni non fanno il bilancio. Qui siamo nell’“Italia che funziona”, o no?
No, non si può avere una legge forestale di quelle dimensioni, scritta in burocratese esattamente come a Roma, indecifrabile, incomprensibile, astrusa. Non si può vessare il cittadino con ammende sproporzionate, in teoria in grado di rovinare un malcapitato contravventore.
Oggi ci rendiamo conto che, nel disinteresse di tutti, si possono infliggere multe di migliaia di euro a chi percorra con le infradito un sentiero di montagna o a chi si azzardi a fare pipì contro un paracarro?
Un’ultima considerazione: quanto è costato alla pubblica amministrazione coinvolgere un pubblico ministero, un giudice e tutta la struttura giudiziaria in un vero e proprio processo penale per un’evidente bolla di sapone? È ragionevole e serio tutto ciò?