Ordinanza della Consulta 96/2018 sul blocco della perequazione nel 2014
Contraddizioni, vaghezza di concetti e una porta spalancata all’insindacabilità delle azioni di Governo per motivi di bilancio. Resta solo la Corte Europea.
Michele Carugi
Componente del comitato pensionati ALDAI - Federmanager
Con l'ordinanza 96/2018 la Corte Costituzionale ha rigettato le istanze di incostituzionalità relative al blocco della perequazione delle pensioni nel 2014 per le pensioni superiori a 6 volte il minimo.
L'ordinanza va nel solco della sentenza 250/2017 con la quale la Corte Costituzionale contraddisse in alcuni concetti di base la sua precedente 70/2015 e dette via libera definitiva al decreto Poletti che aveva attuato “pro domo sua” la sentenza del 2015, la quale aveva dichiarato anticostituzionale il blocco della perequazione delle pensioni negli anni 2012 e 2013.
Nell'ordinanza del 18/04/2018 depositata l'11/05/2018 i giudici ribadiscono alcuni concetti già espressi in quelle precedenti, quale la “resistenza” delle pensioni più elevate all’erosione del potere d’acquisto e la “non irragionevolezza” del blocco della perequazione sugli assegni più alti in ragione delle esigenze finanziarie dello Stato, ma, soprattutto, nel respingere alcune considerazioni del ricorrente e citando se stessi in sentenze precedenti, compiono alcune acrobazie logiche che lasciano fortemente perplessi.
Per respingere la considerazione del ricorrente che “la pretesa del legislatore di fare fronte a una contingente negativa situazione finanziaria dello Stato mediante una riduzione permanente delle pensioni, che permarrà anche una volta che tale situazione avrà avuto termine, sarebbe «irragionevole e sproporzionata […], poiché i mezzi usati per una compressione dei diritti costituzionali eccedono i fini proposti»”, la Corte cita la 250/2017 dove argomentava (?) “come tali conclusioni non siano inficiate, rispettivamente, dal fatto che il censurato blocco della perequazione dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS non preveda alcuna forma di recupero e produca i propri effetti anche sulla perequazione per gli anni successivi – trattandosi di normali conseguenze, in difetto di specifiche disposizioni di segno contrario, delle misure di blocco della perequazione”.
In sintesi e in linguaggio più comprensibile, la Corte sta dicendo che l’effetto di trascinamento perenne della non perequazione non è misura sproporzionata alla esigenza finanziaria del momento in quanto il trascinamento del blocco è una conseguenza normale del blocco.
Un po’ come dire: uccidere, sparandogli, un truffatore non è sproporzionato, perché l’uccisione è una naturale conseguenza dello sparare.
Non si può neppure dire che quello della Corte sia un argomento fallace; non è proprio un argomento.
In un altro passaggio della sua sentenza, la Corte, citando sé stessa, asserisce che “ il blocco, per gli anni 2012 e 2013, della perequazione dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS non è tale da minare l’adeguatezza degli stessi, considerati nel loro complesso, atteso che esso incide su trattamenti di importo medio-alto”.
Qui tutto si gioca sulla vaghezza del termine “adeguatezza” il quale, salvo precisazioni, non ha alcun senso. Non si è adeguati in senso generale; si è adeguati a qualcosa. In questo caso la Corte si guarda bene dal precisare a cosa sarebbero comunque adeguate le pensioni medio-alte anche in assenza di perequazione; certamente non sono adeguate al mantenimento del tenore di vita precedente in quanto diminuite in termini reali né sono più adeguate al mantenimento (sempre in termini reali) del rapporto pensione/retribuzione determinato all’atto del pensionamento né (e questo è assai peggio e più grave) più adeguate al mantenimento del rapporto contributi versati/assegno pensionistico determinato dai versamenti contributivo e dalla pensione al momento della cessazione del lavoro.
Forse la Corte voleva riferirsi all’adeguatezza a una sopravvivenza dignitosa, ma si è guardata bene dall’esplicitarlo, perché una affermazione del genere sancirebbe di fatto un principio di uguaglianza in totale in contrasto con l’Art. 36 della Costituzione che parla di “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” significando che devono essere in ogni caso garantite ai lavoratori (meglio precisare) retribuzioni (e pensioni) sufficienti alla sussistenza dignitosa, ma che ciascuno ha diritto a una retribuzione (e pensione) commisurata a quanto e come sa lavorare; di fatto qui sono delineate stratificazioni sociali e non appiattimenti su un reddito adeguato alla sopravvivenza dignitosa.
La Corte non ha neppure ritenuto questa volta di citare la propria sentenza 316/2010 nella quale, pur dando il via libera al blocco della perequazione per l’anno 2008 (e quando mai no?) aveva ammonito che “la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta.” Non lo ha fatto perché ciò sarebbe stato ipso facto in contrasto con la precedente affermazione sulla “resistenza” dei trattamenti medio-alti; questo non cambia comunque il fatto che la Corte sia, nelle sue sentenze, fortemente contraddittoria o che, i suoi giudici abbiano un concetto vago di cosa siano la reiterazione e la ricorrenza. Sì, perché altrimenti non si spiega come possano conciliare quella loro affermazione con l’approvazione costante dei blocchi della perequazione che, a partire dall’infausto 1997, quando per la prima volta fu abolita la perequazione piena, sono stati, per le pensioni superiori a 6 volte il minimo, 7 totali su 22 anni. C’è anche da dire (si veda la tabella) che negli altri anni la perequazione è stata riconosciuta al massimo al 75%, con 4 anni nei quali è stata riconosciuta al 45%; forse nella mente dei nobili giudici “frequente reiterazione “ significa… tutti gli anni.
Nel complesso, ancorché l’ordinanza fosse largamente aspettata, le affermazioni qua e là della Corte, le contraddizioni e qualche forzatura lasciano intendere che il diritto potrebbe essere sottomesso alla ragion di Stato in via definitiva. Gli esecutivi sembrano avere annusato l’aria se è vero come è vero che la Presidenza del Consiglio, tra le eccezioni di inammissibilità presentate per opporsi al ricorso oggetto dell'ordinanza 96/2018 si è spinta ad asserire “l’insindacabilità delle scelte discrezionali del Governo…” come a dire: non c’è più giudice neppure a Berlino. Per questa volta la consulta ha disatteso l’eccezione, ma in futuro…chissà