La strana teoria dell'assistenza
Dalle proposte di ricalcolo delle pensioni al dibattito sulla reversibilità emergono rilevanti aspetti demagogici, in antitesi ai principi costituzionali.
Antonio Dentato
Componente Sezione Pensionati Assidifer - FedermanagerLo diciamo da tempo: occorre distinguere la previdenza dall’assistenza. Su questa esigenza si manifesta una progressiva adesione del mondo politico e anche dell’opinione pubblica, almeno quella che emerge dagli
strumenti di comunicazione. E questo è positivo.
Ma la dottrina economica sembra orientata a spingersi oltre, con adesioni che, controluce, si intravedono anche in disegni di legge governativi. Perché l’orientamento che emerge è quello di
classificare nell’assistenza non solo le prestazioni che hanno esclusivamente natura assistenziale (principalmente pensioni e assegni sociali e provvidenze economiche di invalidità civile prive di
una base contributiva) ma anche altre, come, ad esempio: le pensioni di reversibilità, finora sempre classificate nella previdenza.
In pratica andrebbe considerata pensione solo la parte maturata secondo il metodo contributivo (a condizione che il periodo di godimento corrisponda all’effettiva speranza di vita del beneficiario)
(cfr. lavoce.info, 01.03.16: I calcoli sulla pensione e sulla sua reversibilità, Mario Sebastiani).
Il ragionamento è semplice ed efficace, perché la pensione sarebbe solo quella coperta dai contributi (sia pure una pensione d’importo elevatissimo). E sarebbe nient’altro che la restituzione di quanto
accumulato in un Fondo durante l’attività di lavoro dal beneficiario. Solo per questa parte si costituirebbe un vero e proprio diritto. La parte eccedente quella accumulata nel Fondo non dovrebbe definirsi pensione, ma assistenza “poiché non è stata guadagnata”.
Il ragionamento si fa ancora più sottile per quanto attiene alle pensioni di reversibilità. Se, nell’attribuire la pensione al titolare, è stato calcolato anche il “supplemento di vita” del nucleo familiare che potrebbe diventarne beneficiario(esemplificando, la speranza di vita del coniuge) a questi allora è riconosciuto il trattamento previdenziale (la pensione), indipendentemente dal reddito del superstite. Se, invece, il metodo di calcolo non ha previsto il “supplemento di vita” del o dei superstiti, allora quello corrisposto non è altro che trattamento assistenziale.
Accettare o confutare teorie come quella appena esposta, occorrerebbe molto più spazio di quanto sia consentito da un articolo. Mi limito pertanto alle seguenti osservazioni:
> non è vero che chi, con il sistema contributivo, ha versato alti contributi ha diritto ad una pensione corrispondente ai contributi versati, anche se d’importo elevatissimo. Infatti, secondo le disposizioni in vigore, all’atto del collocamento in quiescenza opera il confronto fra importo di pensione derivante dal calcolo contributivo e quello derivante dal retributivo. Se il primo (contributivo) dà luogo ad una pensione superiore a quella derivante dal secondo (retributivo), è questa (più bassa) che viene attribuita;
> non è condivisibile l’idea che si può definire pensione solo la parte maturata secondo il metodo contributivo, perché, nell’attribuzione di trattamenti con il sistema retributivo, sono stati sottratti molti diritti previdenziali a un numero elevatissimo di pensionati. A questi sono stati attribuiti trattamenti di gran lunga inferiori a quelli dovuti, in rapporto ai
contributi versati. Pertanto essi hanno contribuito anche all’erogazione di pensioni di più lunga durata e a quelle di reversibilità;
>le pensioni di reversibilità, con l’attuale disciplina, subiscono tagli sproporzionati: per il 2016, sopra la soglia di € 32.623, sono ridotte già del 50%, cioè più dell’aliquota fiscale massima. Inoltre, l’attuale meccanismo di reversibilità produce una riduzione fino al 70% nei casi di aggancio al reddito del beneficiario;
> teorie che tendono a colpire ulteriormente l’area della previdenza riducono non solo gli spazi di solidarietà intergenerazionale, ma colpiscono profondamente la solidarietà familiare. Non si
tiene conto che questa è forza e sostegno durante l’attività produttiva del titolare della pensione diretta, e sarebbe profondamente ingiusto negarle valore quando deve ricevere riconoscimento
sul piano previdenziale;
> chi si batte per una distinzione tra assistenza e previdenza, avendo a riferimento solo gli aspetti statistici della speranza di vita, finisce per togliere ogni valore all’impegno di generazioni
di lavoratori che hanno combattuto lunghe battaglie per una radicale riforma del precedente regime previdenziale mutualistico/assicurativo…;
>…e non si rende conto che inesorabilmente orienta verso il ”fai da te”, a scapito della previdenza pubblica; apre grandi spazi al mercato delle assicurazioni private sui rischi della vecchiaia;
un mercato nel quale entreranno soprattutto quelli che hanno sufficienti risorse per poterle sottoscrivere. Per contro, non potranno sottoscriverle le persone già in quiescenza, già avanti
negli anni (il costo sarebbe elevatissimo);
> cambiare le regole rispetto a situazioni già stabilizzate, oltre che giuridicamente contestabile, sarebbe socialmente iniquo;
> gli interventi normativi diretti a realizzare una più equa distribuzione delle risorse del nostro Paese non possono partire dallo smantellamento del sistema previdenziale che, come detto, è
stato oggetto di lunghe e faticose conquiste. La giustizia distributiva opera meglio utilizzando le leve del fisco piuttosto che attuando continui interventi sottrattivi sulle pensioni. Perché
essa si esercita su tutti i redditi e non solo su alcuni. In particolare quelli pensionistici.
30 marzo 2016