Europa 2050: Suicidio Demografico

Che silenzio assordante di fronte al suicidio demografico dell'Europa previsto per il 2050! Le previsioni demografiche delle grandi regioni del mondo per quella data sono conosciute e vengono riaggiornate ogni due anni dalle Nazioni Unite e regolarmente da Eurostat per gli Stati membri dell'UE, ma bisogna essere uno specialista di database per servirsene. Infatti nessuno ne parla, soprattutto a Bruxelles, dove si preferisce produrre rapporti sulle rivoluzioni tecnologiche, lo sviluppo sostenibile e la transizione energetica. Nel seguito spieghiamo come la crescita economica e la produttività non sono messe in relazione con gli indicatori chiave relativi alla popolazione.

Documento  n°462 della Fondazione ROBERT SCHUMAN del 13 Febbraio 2018 realizzato da Jean-Michel BOUSSEMART e Michel GODET.   Traduzione e cura di:

Giovanni Caraffini 

Consigliere ALDAI - Federmanager
Dobbiamo svolgere il nostro compito di lanciare l’allarme, anche se sappiamo che nel 2050 non saremo più qui a rattristarci per non essere stati ascoltati. Contrariamente al Nord America, che vedrà la sua popolazione aumentare di 75 milioni di abitanti (la metà del Sud America), di qui al 2050 l'Europa potrebbe restare sui 500 milioni di abitanti perdendo però 49 milioni di persone in età lavorativa (nella fascia da 20 a 64 anni), di cui 11 milioni in Germania. Anche la Spagna e l’Italia dovrebbero perdere dai 7 agli 8 milioni di potenziali lavoratori attivi. La Francia potrebbe rallegrarsi del fatto di aver quasi raggiunto la Germania come numero di abitanti, anche se il Regno Unito potrebbe precederla in questo traguardo.
Ma sarebbe illusorio accontentarsi di questo risultato, perché i nostri vicini sono anche i nostri principali mercati: l'87% di ciò che viene prodotto in Francia viene infatti consumato in Europa, e precisamente il 70% nella Francia stessa e il 17% negli altri paesi europei (pari al 56% del 30% esportato).

La tettonica demografica

Dai movimenti di tettonica demografica sull’orizzonte 2050 si possono trarre anche altre lezioni non meno significative: Cina, Giappone e Russia perderebbero rispettivamente 38, 20 e 15 milioni di abitanti, mentre l'India li aumenterebbe di circa 400 milioni, arrivando così a superare la popolazione della Cina di almeno 300 milioni di unità. E ci sarà un salasso particolarmente forte nella fascia d'età da 20 a 64 anni: -22 milioni per la Russia, -20 milioni per Giappone e -195 milioni per la Cina. Gli Stati Uniti vedrebbero invece i lavoratori potenziali aumentare di quasi 20 milioni.
Serviranno braccia e cervelli per compensare la perdita di forza di lavoro attiva da qui al 2050. Prospettive? Nello stesso periodo la popolazione dell'Africa dovrebbe aumentare di 1 miliardo e 300 milioni, di cui 130 milioni solo in Nord Africa. È chiaro che la pressione migratoria sull'Europa sarà più forte che mai! Ebbene, di questo shock demografico (implosione interna sommata all’esplosione esterna) l’Europa non parla e nemmeno ci si prepara. Ci si comporta cioè come se lo tsunami demografico fosse meno importante dell’onda digitale.
Perché questa reticenza cessi noi invitiamo i nostri interlocutori ad immaginare qualche milione di rifugiati climatici provenienti dall'Asia o un numero ancor maggiore di rifugiati politici ed economici provenienti dall'Africa e dal Medio Oriente. Facciamo presente che se solo l'1% dell'aumento della popolazione africana si installasse in Francia di qui a 35 anni (il 2050 è altrettanto vicino a oggi di quanto lo è il 1980) ci troveremmo con 13 milioni di abitanti in più : un aumento del 20%! Se si pensa quanto l’Unione europea sia rimasta indebolita e scossa nel 2015 da un milione di rifugiati, di cui tre quarti politici, ci si rende conto che non si dovrebbe aspettare oltre per iniziare a prepararsi a tali prospettive. Ci si dovrebbe ispirare al Canada, che non ha esitato a praticare una politica di contingentamenti legati alle esigenze del mercato del lavoro. Si dovrebbe inoltre incoraggiare una forte ripresa della fecondità nel vecchio continente. Perché l'integrazione si fa prima di tutto con l'amalgama culturale che avviene nelle scuole.
Quando c’è troppa sabbia, il cemento non prende. Per ricevere più sabbia, ci vuole più cemento; cioè, più bambini che parlano la lingua del paese qualunque sia il colore della pelle. Per restare aperti al mondo si dovrebbe rilanciare la fertilità in Europa da subito. Ma chi parla di politica famigliare in un’Europa che permette che vi siano alberghi e luoghi di vacanza riservati agli adulti, proibiti ai bambini e dove vi è tolleranza solo per gli animali domestici!?
I media cominciano giustamente ad allarmarsi perché in Europa nel 2016 per la prima volta il numero delle bare ha superato quello delle culle. In realtà questo fenomeno si sta verificando in Germania sin dal 1971, in Italia dal 1991, in Spagna dal 2016, in Russia dal 1991 e in Giappone dal 2006. Il turno della Cina arriverà nel 2028. Anche la Francia, e perfino gli Stati Uniti, ne dovrebbero essere interessati, ma solo dopo il 2050.
Il suicidio demografico della vecchia Europa è per ora solo annunciato, ma c’è ancora tempo: la buona previsione non è necessariamente quella che si avvera, ma piuttosto quella che induce ad agire per evitarla.

Capelli grigi e crescita debole

Tradizionalmente la forte crescita economica del dopoguerra in Europa viene attribuita alla ricostruzione e al rafforzamento del rapporto con gli Stati Uniti, con un boom economico che ha coinciso con l’onda demografica. Più raramente si mette in evidenza che negli anni ’50 e ’60 l'aumento della produttività apparente del lavoro è stata da due a tre volte più alta che negli anni ‘80 e seguenti, sebbene all’epoca non ci fossero computer e non si parlasse di rivoluzione tecnologica. Come non vedere in questa produttività elevata l'effetto della curva d’esperienza e della riduzione dei costi unitari di produzione in mercati in continua espansione?
Inversamente, a partire dagli anni '80 in Europa, in Giappone e negli Stati Uniti la crescita economica e della produttività non ha cessato di rallentare. I ricercatori si interrogano sulle cause di questo fenomeno che si è verificato proprio quando cominciavano a rendersi sempre più percettibili le rivoluzioni tecnologiche dell'informazione e della comunicazione (ICT), delle biotecnologie, delle nanotecnologie e delle energie (energie rinnovabili e stoccaggio), secondo il famoso paradosso di Solow “si trovano computer dappertutto salvo che nelle statistiche della produttività”. Ma, curiosamente, non si interrogano sul possibile legame fra rallentamento della crescita e invecchiamento demografico nelle zone di più antico sviluppo: Stati Uniti, Giappone ed Europa.
In Europa e in Giappone la crescita del PIL è stata più forte negli anni '80 che negli anni '90 (2,5% contro 2,3% per l'Europa; 4,6% contro 1,1% per il Giappone). Negli Stati Uniti durante questi due decenni la crescita del PIL è stata più alta di circa un punto percentuale rispetto all’Europa. La spiegazione è riconducibile essenzialmente (per più di metà) alla demografia, in quanto nello stesso periodo il tasso di crescita del PIL pro capite è stato di solo 0,2 punti più alto oltre Atlantico che in Europa. In effetti, la crescita demografica degli Stati Uniti, che è dell’ordine dell'1% annuo, dagli anni ‘60 in poi è sempre stata da due a tre volte superiore a quella europea.
Una seconda spiegazione del più elevato ritmo di crescita del PIL in America è poi da ricercare nel tasso di occupazione della popolazione e nel numero di giorni/ore lavorate all’anno, che sono entrambi più alti che in Europa. Cioè, se gli americani crescono più velocemente è perché quelli che lavorano sono di più e sgobbano di più.

Abbiamo preso in esame un panel di 23 paesi membri di lunga data dell'OCSE: Austria; Australia; Belgio; Canada; Danimarca; Francia; Finlandia; Germania; Grecia; Islanda; Irlanda; Italia; Giappone; Lussemburgo; Nuova Zelanda; Norvegia; Portogallo; Spagna; Svezia; Svizzera; Paesi Bassi; Regno Unito e Stati Uniti. Utilizzando la banca dati Ameco della Commissione europea abbiamo calcolato, per ogni paese e nel periodo 1993-2015, la media delle variazioni annue (in %) della popolazione totale da un lato e la media delle variazioni annue (in %) del volume del PIL pro capite dall’altro. Come si vede nel grafico 1, il cluster delle 23 coppie di dati così ottenuti si addensa in modo statisticamente significativo attorno a una retta di regressione con un coefficiente R2 pari a 0,42.
  

Quando l’onda digitale nasconde lo tsunami demografico

Nella Commissione di Bruxelles, ma anche nella maggior parte delle altre istanze nazionali e internazionali, la questione del legame tra demografia e crescita viene raramente evocata, mentre ci sono legioni di rapporti su tecnologia, innovazione e competitività. L’uomo viene trattato solo come capitale umano e nella prospettiva della formazione, considerata giustamente un investimento e un fattore di crescita a lungo termine. La demografia viene trattata solo in relazione all’invecchiamento visto come fonte di problematiche per i sistemi pensionistici, la spesa sanitaria e la presa in carico della non autosufficienza, quasi mai invece in relazione all'impatto dell’invecchiamento sulla crescita e sul posizionamento dell'Europa nel mondo. 

Nel 2000, l'ambiziosa strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione puntava essenzialmente sulla tecnologia dell'informazione e sull'economia della conoscenza per garantire all'Europa un futuro e un potere sulla scena internazionale con orizzonte 2010. Quasi a metà strada, nel 2004, il rapporto Wim Kok manteneva la rotta verso la società della conoscenza e lo sviluppo sostenibile per un'Europa allargata ma, fatto nuovo, dedicava anche una paginetta all'invecchiamento dell’Europa, come fattore capace di ridurre la crescita potenziale dell’Europa di un punto percentuale all’anno (circa l'1% anziché il 2%) entro il 2040. Ma nulla si diceva nel rapporto sull’evoluzione demografica dell'Europa comparata con quella degli Stati Uniti: dimenticanza tanto più rimarchevole in quanto questi tipi di confronti sono usuali per la ricerca, l’innovazione e la misura della produttività.

Gli effetti moltiplicatori della demografia

Come diceva Alfred Sauvy, gli economisti “rifiutano di vedere” il legame fra crescita economica e dinamica demografica, e per questo non cercano mai di verificarla. Eppure il boom economico del dopoguerra è andato di pari passo con il baby-boom e anche l'espansione degli Stati Uniti si spiega chiaramente con dati demografici più sani: per trent'anni il tasso di fertilità negli Stati Uniti è stato di circa 2,1 figli per donna contro gli 1,5 dell’Europa e la popolazione degli Stati Uniti continua ad aumentare sensibilmente, anche per effetto di importanti flussi migratori. Quando si fanno confronti tra i tassi di crescita degli Stati Uniti e quelli dell’Europa si fa di solito ricorso alla tecnologia per spiegare le differenze sul lungo termine. Ci si può domandare tuttavia se non vi sia anche un effetto di "moltiplicatore demografico". Questa ipotesi consente di capire meglio perché la crescita e soprattutto i guadagni di produttività che si sono verificati tra il 1950 e il 1960 sono stati due volte superiore a quelli che si sono verificati negli anni '80 e '90, in cui vi sono state rivoluzioni tecnologiche che avrebbero dovuto portare teoricamente a forti guadagni di produttività.

Con l’avvento della nuova economia la questione sembrava risolta. Gli Stati Uniti attraversavano un periodo di forte crescita economica con aumenti di produttività (apparente del lavoro) molto maggiori rispetto all'Europa. Non era questa la prova che del ritardo tecnologico dell'Europa? Ma ora che disponiamo di statistiche validate su quel periodo, è lecito dubitare di questa spiegazione. Negli anni '80 la crescita del PIL per addetto nelle due aree era comparabile (intorno all'1,5% in entrambe le aree), semmai con un leggero vantaggio per l'Europa negli anni '80. Ma è a partire dagli anni '90 che l’Europa sembra perdere i passo rispetto agli Stati Uniti. Qui la produttività apparente del lavoro (PIL/addetto) aumenta di più del 2% annuo negli anni '90, dell’1,5% annuo fino al 2007 e dell'1% dopo la crisi. In Europa, nello stesso periodo il tasso di aumento della produttività passa dall'1, 7% annuo degli anni '90 all'1% annuo tra il 2000 e il 2007 per crollare allo 0,3% annuo a partire dal 2008.
La questione è allora aperta: lo scarto deve essere attribuito al divario tecnologico o al divario demografico? Noi avanziamo l’ipotesi che sia quest'ultimo il fattore che gioca un ruolo determinante, perché il fossato demografico si approfondisce più che mai.

Non tutti gli abitanti lavorano, ma è il numero delle ore lavorate all’anno che spiega l’essenziale della differenza di livello della produttività apparente, perché in un anno gli americani lavorano il 46% più dei francesi. E se lavorano, vuol dire che c’è una domanda solvibile da soddisfare, forse anche più sostenuta che altrove, a causa dell'espansione demografica.

Se si rinuncia all'ipotesi di indipendenza fra le due variabili “PIL per abitante" e "crescita demografica", allora possiamo avanzare una nuova ipotesi, quella dell’esistenza di un moltiplicatore demografico che sarebbe all’origine di una parte importante degli aumenti di produttività, che come abbiamo visto sono maggiori in America che in Europa. Generalmente gli economisti (riferendosi alla famosa funzione di produzione di Cobb-Douglas) spiegano la crescita mediante tre fattori: il capitale, il lavoro e il progresso tecnico. Torniamo alle fonti: la produttività è il residuo di crescita supplementare che non si spiega con l'aumento dei fattori di produzione (capitale e lavoro). In mancanza di meglio, l'aumento della crescita del PIL per addetto viene attribuito al progresso tecnico (in questo caso alla diffusione delle tecnologie dell'informazione), il che è una maniera positiva di designare il residuo non spiegato.

Dinamica demografica e produttività apparente del lavoro

La crescita del PIL dipende da due fattori: il PIL per occupato attivo e il numero di occupati attivi. L'aumento del PIL per occupato attivo di fatto è stato maggiore negli Stati Uniti che in Europa dalla metà degli anni '90 in poi.
In realtà, la variazione del PIL per addetto (produttività apparente del lavoro) è tanto più significativa in quanto gli occupati attivi ed i posti di lavoro aumentano in una popolazione in espansione. Il progresso tecnico, la formazione e le economie di scala si combinano per abbassare i costi unitari, migliorare la qualità e in sostanza aumentare il valore aggiunto; cioè il PIL per addetto. Il moltiplicatore della dinamica demografica funziona ancora negli Stati Uniti, anche se meno che negli anni '60, ma non funziona più nell’Europa dai capelli grigi. Gli economisti non trovano questo moltiplicatore demografico perché non lo cercano. Eppure questa ipotesi chiarirebbe il distacco fra la crescita del PIL per addetto verificatasi in Europa dall’inizio degli anni 2000 rispetto a quella negli Stati Uniti meglio del solo ritardo nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. La crescita a lungo termine nei paesi sviluppati è guidata dalla demografia: senza capitale umano, la crescita è come imbrigliata dalla mancanza di ossigeno.

Con un indicatore congiunturale di fertilità prossimo a 1,5 l'Europa avrà domani generazioni di giovani attivi un terzo meno numerose di quelle attuali. Una caduta del tasso di natalità è per un paese quello che è per un’impresa una diminuzione degli investimenti: permette di beneficiare per qualche tempo di una tesoreria più confortevole ma a prezzo di ulteriori gravi problemi. Ne consegue che una politica famigliare che sostenga la crescita demografica è un investimento per il lungo termine. Alcuni potrebbero sostenere che il deficit delle nascite in Europa con il suo impatto negativo sulla futura crescita economica e l'innalzamento del tenore di vita potrebbero essere compensati da flussi migratori di sempre maggiore ampiezza. Si illudono, come mostrano gli avvenimenti recenti, specialmente l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, e come mostrano anche le reazioni di quasi tutte le nazioni europee ai recenti flussi di migranti venuti dall'Africa e dal Medio Oriente.

***

I paesi europei sono come dei frutteti i cui alberi, dopo aver prodotto per 40 anni, sono arrivati a maturità senza che si sia prevista la loro sostituzione con giovani pianticelle. Ora, per investire e consumare bisogna aver fiducia nel futuro e aver bisogno di dotarsi di mezzi, caratteristiche queste che sfortunatamente regrediscono con l'età. Le molle del dinamismo sono le stesse sia in campo economico che demografico: il gusto di vivere si esprime sia con l'iniziativa economica sia con il desiderio dei figli. Lo spirito d’impresa è cugino dello spirito di famiglia.

Jean-Michel Boussemart - Delegato generale dell'Istituto di Ricerca e Previsione macroeconomica COE-Rexecode

Michel Godet - Professore emerito del CNAM e membro del comitato scientifico della Fondazione Robert Schuman

Il documento in lingua originale è scaricabile cliccando di seguito.

Europe 2050 suicide dacmografique

europe-2050---suicide-dacmografique.pdf

2 commenti

Guido Dalla Casa :
Penso che sia molto utile la consapevolezza completa del fatto che il sistema economico, e l’umanità intera, fanno parte di un Sistema Complesso molto più grande e antico, cioè l’Ecosfera (o la Terra), di cui non si può alterare a lungo il funzionamento, senza provocare fenomeni molto gravi, di cui si vedono già i primi segni. Non possiamo ignorare che, assieme all’aumento di popolazione e di oggetti, arrivano l’inquinamento, l’alterazione dell’atmosfera, i cambiamenti climatici, il consumo di territorio, la scomparsa di milioni di specie di esseri senzienti, l’accumulo di rifiuti ingestibili, la sparizione delle foreste e di quanto c’è di bello nel mondo.

Naturalmente dobbiamo essere consapevoli anche del fatto che questi fenomeni sono tutti collegati. Mi domando quanti oggi si rendano veramente conto che volere la crescita economica significa voler rifare il mondo, mettere impianti, città, strade, fabbriche al posto di paludi, savane, foreste, barriere coralline, praterie.

In ogni caso, quando vedo proiezioni all’anno 2050 mi vengono alcuni dubbi: le probabilità che si arrivi al 2050 continuando con gli andamenti attuali sono molto scarse. Le tabelle e i grafici riportati nell’articolo denotano per quel periodo una situazione impossibile, o perlomeno ingestibile. Mi sembrano invece una “prova” che entro questi 30 anni, ma abbastanza presto, succederà “qualcosa” che interromperà gli andamenti attuali. Il grafico BAU de “I limiti dello sviluppo” (anch’esso una proiezione, finora sempre confermata) mostrava che, a partire dal 2050 circa, l’umanità dovrà diminuire di 5 miliardi di individui, in un mondo terribilmente degradato, ovviamente se continuerà il modo di procedere attuale (la crescita).

Ricordo che Aurelio Peccei non era un fanatico “ambientalista”, ma un dirigente. Quindi ben venga il calo delle nascite in Europa, e in particolare in Italia: se i nostri figli saranno in numero minore, avranno ben più probabilità di cavarsela. Inoltre l’invecchiamento della popolazione è un fenomeno transitorio: quando saranno morti i nati fino al 1970 (fine del baby-boom) si ristabiliranno le proporzioni fra giovani e anziani. Il guaio è che questo avverrà solo attorno al 2050, considerando una vita media di 80 anni. Guardando al resto del mondo, il più grave errore dell’Occidente è stato quello di portare i medicinali senza i corrispondenti anticoncezionali e la relativa indispensabile istruzione.

Per quanto riguarda l’impiego del PIL come indicatore del benessere, riporto una parte del noto discorso di Robert Kennedy presso l’Università del Kansas (1968): “Quel PIL – se giudichiamo gli USA in base ad esso – comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck, e i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine di vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari. Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le rivolte urbane. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia, la solidità dei valori familiari o l’intelligenza del nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese. Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
Come noto, chi aveva pronunciato queste parole fu assassinato tre mesi dopo.

I più cordiali saluti.

Guido Dalla Casa (Gruppo Energia Ecologia)


lunedì 30 dicembre 2019 12:00
Bruno Villani :
Grazie collega, per il contributo alla Sviluppo Sostenibile che la dirigenza è impegnata a realizzare per il futuro del Paese, come descritto negli articoli di questo numero Dirigenti Industria.

Bruno Villani, Direttore
martedì 31 dicembre 2019 12:00
Archivio storico dei numeri di DIRIGENTI INDUSTRIA in formato pdf da scaricare, a partire da Gennaio 2013

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