Assemblea Federmanager 2017 - Prolusione del Presidente Stefano Cuzzilla
Il pomeriggio di venerdì 26 maggio, Federmanager ha vissuto il suo appuntamento annuale più significativo. Nell’esprimere la piena soddisfazione per il senso di appartenenza alla nostra categoria e per l’autorevolezza degli interventi che hanno caratterizzato l’Assemblea Federmanager, confido che il Paese sappia cogliere il messaggio di speranza del management industriale.
Stefano Cuzzilla
Presidente Federmanager
Questa sera desidero condividere con voi un messaggio di speranza.
La speranza è la scommessa di questo tempo; riguarda il futuro, riguarda la possibilità che abbiamo di generare benessere avendo ben in mente chi lo erediterà. La speranza è anche un prezioso antidoto alla paura.
Il panorama politico ed economico globale oggi è dominato dall’incertezza, un’incertezza che può diventare estremamente pericolosa se diventa persistente. Questo genera paura e la paura non genera nulla. La paura, poi, è un sentimento che non appartiene affatto alla nostra categoria. Per questo, con umiltà ma anche con una forte ambizione di migliorare le cose, indicherò in questo mio intervento alcune linee concrete da seguire, insieme alle azioni che riteniamo strategiche e prioritarie.
Inizio dunque con il ringraziare il Cardinal Ravasi che ci onorerà delle sue riflessioni e, per suo tramite, la Santa Sede che ci ha concesso il privilegio di ospitare la nostra Assemblea. Ringrazio il sottosegretario Gozi e il presidente Gualtieri per aver accettato il nostro invito consentendoci di stringere ulteriormente il legame tra noi e le istituzioni europee. Così come un grazie sentito va alla collega Marcella Panucci, direttore generale di Confindustria, che ha accettato la sfida di spiegare le ragioni e il senso della nostra collaborazione.
Prima azione: svelare l’immagine del manager
Essere riuniti in questo luogo ci consente di mettere ben in luce chi siamo. L’identità del manager è troppo spesso confusa agli occhi dell’opinione pubblica ed è danneggiata da una retorica che si nutre di noti stereotipi. Perciò, ristabiliamo subito una verità: i manager rappresentano la spina dorsale dell’industria italiana, ne costituiscono il fulcro, il motore del cambiamento e dello sviluppo. È anche grazie agli sforzi di questa categoria che l’industria italiana, tutto sommato, ha iniziato a riprendersi. E poiché siamo colonna portante, dobbiamo rivendicare senza imbarazzo il nostro carattere di centralità e – se me lo concedete – anche le nostre virtù. In questo senso, non solo i nostri colleghi lavorano per un Paese competitivo e moderno ma restituiscono i risultati di quel lavoro a beneficio dell’intera collettività sociale. Dobbiamo essere capaci, sempre più, di uscire dalla dimensione d’impresa e di calarci nella società. Stiamo intervenendo in supporto delle zone terremotate, non solo mettendo a disposizione risorse economiche, ma offrendo le competenze e il tempo dei nostri manager per ricostruire il Centro Italia colpito. Sentiamo l’urgenza di condividere il valore aggiunto creato per ridurre le disuguaglianze e promuovere una maggiore coesione sociale. Ce n’è a nostro avviso estremo bisogno: accantonata l’utopia della prosperità per tutti, il benessere e la produttività possono tornare a convivere nelle nuove condizioni che si sono create. Occorre però una azione capillare sui territori, integrata a livello europeo. Federmanager, che sul territorio ha 57 sedi, agisce con un’ottica di servizio nei confronti del management, innovando di continuo il sistema di relazioni attraverso un dialogo aperto a tutti gli attori, istituzionali, di impresa, del terzo settore. In Europa, partecipa a un progetto di unificazione e rafforzamento della figura manageriale, alimentando il dialogo sociale europeo con proposte di sistema.
Seconda azione: realizzare la mission di rappresentanza
Da tempo abbiamo smesso di interrogarci su quale sia il ruolo dei corpi intermedi. Ne abbiamo discusso ampiamente e troppo a lungo senza raccogliere grandi risultati. Indipendentemente dalle modalità di esercizio, la rappresentanza vive della dimensione sociale che rende possibile il senso di appartenenza: nel nostro caso significa fondare l’azione su trasparenza, pari opportunità, solidarietà tra generazioni, creatività, innovazione, merito e responsabilità etica. C’è chi lo ha compreso e si misura con questa sfida; c’è chi ripropone il vecchio modello rischiando grosso. Il corpo sociale è come il corpo fisico: si possono curare i sintomi della sua malattia, si possono curare le cause, ma l’intervento migliore, il più efficace, è sempre la prevenzione. Partiamo da un modello di bilateralità che tutela le esigenze presenti e difende i diritti legittimi, che sono sempre esposti ad attacchi demagogici o, peggio, a basi tecniche strumentalizzate. Ma è un modello che sta evolvendo, per farsi carico di quelle esigenze che sono potenziali. Per prendere decisioni con responsabilità e con abilità predittiva servono capacità di ascolto e un’educazione costante della propria base di rappresentanza. Altrimenti, come è stato scritto, si cerca il nuovo e si troveranno solo le novità. Ecco perché ritengo che il nostro compito sia creare le condizioni per una nuova identità del manager nel contesto sociale e per un nuovo ordine delle relazioni industriali. La cultura manageriale e la cultura imprenditoriale devono pertanto affiancarsi per vincere le sfide rappresentate dalle nuove tecnologie e dai nuovi equilibri internazionali. In gioco c’è il futuro della manifattura. È in definitiva la cultura dell’incontro, che tanto è più necessaria quanto più l’incertezza è diffusa. Il nostro sistema si muove dentro il contratto e dentro le singole realtà aziendali. Ci stiamo dando nuove regole e aggiornando i nostri statuti. Con Confindustria e con Confapi abbiamo instaurato un dialogo continuo che sta offrendo risposte anche a problemi più generali, che riguardano la tenuta del Paese. Stiamo dando vita a nuovi enti che si occupano di politiche attive del lavoro in modo autonomo. Abbiamo anche avviato un progetto congiunto per introdurre nel tessuto imprenditoriale manager ad alta specializzazione, debitamente formati e certificati, in modo da essere competitivi al tempo della cosiddetta Quarta rivoluzione industriale. Penso anche al sistema di welfare contrattuale e di secondo livello che abbiamo sviluppato negli anni: un meccanismo virtuoso che finora ha messo in garanzia beni fondamentali come la salute e il mantenimento della qualità della vita durante il pensionamento. Sanità integrativa e previdenza complementare meritano di essere valorizzate a livello normativo e – consentitemi – anche a livello ideologico, per integrarsi all’interno di un sistema di welfare che pone al centro il cittadino e i suoi bisogni. È finito il tempo in cui si poteva far a meno della sinergia tra pubblico e privato. Il privato possiede doti di immediatezza e di visione strategica che il decisore pubblico dovrebbe tener in maggiore considerazione per dare sostenibilità al futuro. In questo senso, va riconosciuto con onestà il valore di quei corpi intermedi che sanno rappresentare la realtà delle cose. Come dice il proverbio africano, se i due elefanti litigano, povera l’erba…se Stato e mercato si trovano opposti, o si osteggiano, la rappresentanza dei manager è la cerniera che tiene insieme questo Paese, garantendo alle istituzioni e alle imprese gli strumenti per far fiorire il campo.
Terza azione: mettere al centro la persona
Discutiamo sulla minaccia di estinzione di molte forme di impiego causata da automazione e intelligenza artificiale. Tutto il tema del lavoro, e quindi dell’occupazione, è investito dal conflitto, vero o presunto, tra uomini e robot. L’innovazione tecnologica spaventa in particolare i Paesi più industrializzati: proprio lì dove si cresce meno e si invecchia di più. Sono vecchi i nostri modelli di produzione. In Italia più di un imprenditore su due ha superato i 60 anni. Anche la ripresa occupazionale dei manager over 50, che ha tante motivazioni e che è in sé accogliamo come una buona notizia, si scontra con il pessimo dato delle nomine dirigenziali under 40. Sul totale dei dirigenti in servizio, quelli fino a 39 anni d’età sono appena poco più del 5%. Dal 2011 a oggi i nostri dati mostrano che abbiamo perso un manager giovane ogni due. Sottorappresentate anche le donne manager, che invece stanno dimostrando, dove è loro concesso spazio, una grande spinta all’innovazione e una capacità di leadership che produce risultati misurabili. Più che spaventarsi di fronte all’avvento dell’automazione, occorrerebbe dunque investire nel capitale umano. Lo chiamiamo “capitale” ma stiamo parlando di “persone”, “risorse”, “intelligenze”, “merito”, “giovani talenti”. Il tema non è la tecnologia. Il tema vero è consentire la modernizzazione del Paese attraverso un piano nazionale di sostegno alla crescita del capitale umano. Il che significa, investimenti nel sistema dell’istruzione, investimenti nella formazione professionale continua, investimenti nell’alternanza scuola lavoro. E ancora, in ricerca e sviluppo, e nel passaggio di competenze tra senior e nuove leve. Sono le persone, la loro creatività e capacità di fare, la chiave di volta per trasformare la cosiddetta Industria 4.0, l’industria del futuro, in un progetto sostenibile in grado di produrre ricchezza in questo Paese. Se non si cresce, non si crea occupazione. E non si cresce per decreto. Serve un progetto Paese che sia orientato a formare professionisti migliori e sia capace di trattenerli a casa propria. Non facciamoci sorprendere inermi di fronte alla cancellazione di posti di lavoro e all’impoverimento di intere classi sociali; abbiamo già conosciuto il luddismo e ci guardiamo bene dal reiterare gli errori. Va bene introdurre un Reddito minimo di inclusione, ma non deve essere un modo per “pagare la povertà”. Piuttosto, non arrendiamoci di fronte alla sfida: il potenziale per una maggiore occupazione esiste, dobbiamo solo esser capaci di realizzarlo. L’avvento del digitale richiede competenze qualificate e professionalità sempre più sofisticate. Non è un caso se nel 2016 le figure professionali con qualifica elevata abbiano superato quelle senza o con bassa qualifica, facendo registrare un aumento di 15,5 punti percentuali nella manifattura. Questo dato registrato dall’Istat è senza dubbio un segnale di reazione. Alla vergogna degli “scontrinisti” va opposto il paradigma che imperava al tempo della vecchia fabbrica, quello dell’ascensore sociale per cui chiunque lo meritasse poteva nutrire un’aspettativa legittima di successo, a prescindere dalle sue condizioni di partenza. È quello che è accaduto a noi. Non si diventa manager per titolo ereditario. Né per caso fortuito. Si diventa manager con molta fatica e dopo un percorso duro di selezione, formazione e valutazione del risultato. Quando si arriva a ricoprire un ruolo apicale in azienda ci si porta dietro questa consapevolezza e si diventa suoi portavoce. Si apre, dunque, l’occasione di un nuovo umanesimo industriale di cui noi manager ci sentiamo promotori e partecipi.
Quarta azione: fare il bello e bene, ma farlo in grande
Ho detto che se non si cresce, non si crea occupazione. Ma come realizzare la crescita non è indifferente. Partiamo dal constatare ciò che è evidente a tutti: l’Italia cresce meno di qualsiasi altro Paese in Europa e le stime per il 2017-2018 non indicano alcun miglioramento. Possiamo ragionare sul tipo di produzione, sugli asset tecnologici di innovazione su cui puntare, sui settori merceologici a maggior valore aggiunto e perfino sul rispetto dell’ambiente, ma da una verità non ci si sposta: non si cresce se non si fa industria. A meno che non si ritenga – a mio avviso follemente – che questa nostra Italia possa campare di solo turismo e di piccolo artigianato, con i nostri figli messi al servizio dei visitatori delle nazioni più ricche. Cosa diversa sarebbe, invece, costruire un turismo industriale che valorizzi la storia e l’arte italiana coltivando qui professionalità e sapere. L’Italia ha bisogno di attrarre investimenti e talenti per essere competitiva. Che si adotti una prospettiva macroeconomica, settoriale o di impresa, la performance del nostro Paese risulta in leggero recupero, anche se non è stato colmato il gap che ci ha fatto perdere, in 4 anni (2011-2014) oltre 194mila imprese e quasi 800mila addetti. I nostri dati sulla situazione occupazionale dei dirigenti industriali ci confermano che l’emorragia si è arrestata ma non siamo fuori pericolo. Dal 2011 solo l’anno scorso abbiamo registrato l’inversione del trend, con un 1% di manager occupati in più rispetto al 2015. È la prima volta che si verifica un segno +, anche se siamo prudenti rispetto all’entità dell’oscillazione. Riteniamo che l’obiettivo di politica economica di un’industria al 20% del Pil sia ancora percorribile. Dalla nostra, abbiamo alcune qualità riconosciute: il bello fatto bene che contraddistingue il Made in Italy fa volare il nostro export da sempre. Esportare è dunque una condizione necessaria, che – possiamo ammetterlo – ci ha salvato dal rischio default, ma non è sufficiente. Secondo l’Istat il nostro export nel 2016 è aumentato, soprattutto in volume, più di quello di Francia e Germania. Per l’anno prossimo ci aspettiamo di arrivare a un 3% alimentando soprattutto la nostra presenza sui mercati asiatici, mediorientali e dell’est europeo. Tuttavia restiamo un paese complessivamente poco internazionalizzato con una quota di Investimenti Diretti Esteri su Pil che è meno della metà di quella realizzata in Francia, Germania, Regno Unito e Spagna. Ci sono settori trainanti, ma ci sono settori sui quali abbiamo puntato poco. Automotive, meccatronica, biomedicale e farmaceutica fanno meglio di altri. Il bello fatto bene funziona anche per i comparti tradizionali del tessile e dell’abbigliamento, dell’elettronica, dell’alimentare. Ciò che manca per fare un salto di qualità è una crescita dimensionale delle imprese italiane. Troppo piccole, troppo familiari. Davvero crediamo di poter essere competitivi con oltre il 94% di imprese industriali con meno di dieci dipendenti? Imprese dove, quasi per necessità, non c’è posto per un manager estraneo alla proprietà? Non è una questione corporativa. Se mancano competenze manageriali a essere danneggiato non è soltanto il manager che resta senza mercato. Dall’osservatorio Federmanager emerge chiaramente che anche nel 2016 le cessazioni dirigenziali si sono verificate nelle imprese più piccole, mentre quelle di medie dimensioni mostrano una vivacità che va supportata. L’equazione potrà essere confermata anche quest’anno: piccolo non solo non è più bello ma rischia di essere spazzato via dalla irruzione delle nuove tecnologie sulla scena globale. Accanto a tutto questo, ci preoccupa il Mezzogiorno che resta penalizzato da un mix di fattori incipienti e di antichi mali. Qui il deficit dimensionale si associa a cancrene di cui conosciamo bene il nome e la specie.Sarebbero benvenuti provvedimenti che, istituendo delle “zone franche”, permettano ad alcune aree del Sud di godere di un trattamento di vantaggio tale da recuperare il ritardo e produrre esternalità positive sul territorio. La nostra speranza di benessere e crescita passa dalla rapidità con cui riusciremo a far risplendere il Mezzogiorno d’Italia. È il messaggio che ci piace lanciare oggi, mentre i 7 Grandi sono riuniti a Taormina: si può continuare a inseguire e ottenere la vera innovazione, solo se la si produce sui territori.
Quinta azione: compiere l’Europa
Certamente, produrremmo idee migliori se intorno a noi il pensiero fosse più ricco. Utilizzo questa frase non mia, per mettere in chiaro che negli ultimi mesi l’Europa è stata messa a dura prova e non sembra sia bastato. Chi avrebbe immaginato, solo un anno fa, il voto sulla Brexit o che il partito di Marine Le Pen scalzasse con un unico colpo la destra e la sinistra francesi? Chi avrebbe immaginato che la retorica del populismo sovranista tornasse alla ribalta un po’ ovunque in Europa? E ancora, in tutta onestà, chi avrebbe puntato la fiche su Donald Trump, che è stato una sorpresa per lo stesso Partito Repubblicano? In questo nuovo ordine globale, poi, la Cina sta vivendo la sua metamorfosi, animatrice di un liberal-comunismo che apre alla collaborazione nel commercio e nei trattati internazionali, perfino quelli sul clima. Vediamo che l’Europa è messa a dura prova, ma non sembra che stia bastando. Ogni voto - olandese e francese prima, tedesco, austriaco e italiano poi - ha il sapore di un referendum sulla sua stessa sopravvivenza. E in questa incertezza, mentre si cerca di capire come far funzionare davvero l’articolo 50 del trattato Ue, l’Europa è fondamentalmente attendista. Che serva più Europa noi lo sosteniamo da tempo. Rimaniamo delusi quando a 60 anni dalla sua costituzione non vediamo prevalere una linea strategica comune. Noi che al sogno europeo non rinunciamo, riconosciamo che il modello sociale europeo è basato sul principio del benessere economico e della pace tra le nazioni. Oggi circa 6.5 milioni di persone lavorano in uno stato membro diverso da quello in cui sono nati. Il mercato delle esportazioni comunitarie vale oltre 5.8 trilioni di euro mentre l’Europa è il principale partner commerciale per 80 paesi del mondo. Come manager non possiamo che difendere il valore del mercato unico e della libertà di circolazione e di scambio. Se chiediamo più Europa, ci aspettiamo però che il nostro Paese metta a frutto le opportunità. Dove sono finiti, ci chiediamo, i miliardi di euro risparmiati grazie alla politica monetaria della BCE? Quali misure abbiamo finanziato con quel tesoretto, mentre la spesa corrente continua a crescere? Il rilancio dell’Europa richiede responsabilità, condivisione. Auspichiamo un’unione fiscale che metta un punto fermo sull’attrazione di capitali finanziari verso i paesi cosiddetti dal fisco amico. Auspichiamo un regime di concorrenza leale e una politica estera comune. Difesa, immigrazione, fisco e politica monetaria sono le tracce per un’Europa più politica e più forte. Ciò che abbiamo vissuto come emergenza, a partire dal terrorismo, sta assumendo carattere di quotidianità. Serve un’Europa con più coraggio, insomma, che sappia accogliere lo straniero, piuttosto che lucrare sul traffico di essere umani o voltarsi dall’altra parte. I manager italiani nascono manager europei: mal sopportiamo frontiere e limiti. Dalla logistica all’industria pesante, dalle nanotecnologie all’approvvigionamento energetico, non esiste tema di sviluppo che non nasca per noi in una dimensione comunitaria verso cui far convergere le nostre speranze.
Sesta azione: ricostruire la politica industriale
Mi avvio alla conclusione tornando con il pensiero a casa nostra. Il fronte interno è pervaso della stessa incertezza e attendismo che vediamo in Europa. È chiaro che la stagione politica attuale non ci consente di fermare questa spirale. Non c’è stabilità di governo, nonostante l’impegno di uomini e donne validi, e pertanto non c’è adeguata programmazione. A livello Paese servono però alcuni provvedimenti e subito, a partire dal fisco: è necessario riformare l’Irpef, che è di fatto un’imposta sui redditi da lavoro dipendente e sulle pensioni, e operare una netta riduzione del cuneo fiscale e contributivo. Sulle politiche attive del lavoro bisogna affrettarsi perché, in un mondo del lavoro caratterizzato da discontinuità crescenti, serve un sistema di sostegno che formi e rafforzi le competenze secondo le esigenze reali del mercato. Sollecitiamo una riduzione della burocrazia e confidiamo nel progetto di una Pubblica Amministrazione digitale e dialogante con cittadini e imprese. Chiediamo una giustizia più certa e veloce così come un risanamento del sistema del credito che faccia finalmente chiarezza sullo stato di salute delle nostre banche. La lotta all’evasione, che è un capitolo che ricompare al varo di ogni manovra economica, è forse la più grande assente dal progetto Italia. Al pari della lotta alla corruzione, che conta su pochi mezzi e su minori buone intenzioni. Chiediamo – e speriamo – di dare priorità alla prossima Legge di Bilancio: che abbia un quadro chiaro sugli investimenti pubblici in economia e sui criteri con cui saranno mobilizzati a sostegno della crescita. Questo Paese non può andare avanti solo con scelte di carattere congiunturale. Chi sta in azienda è ormai abituato a ragionare su piani industriali a 3 anni. Non è un buon segnale il fatto che questo orizzonte temporale si sia accorciato drammaticamente. I manager, che sono “biologicamente” portatori sani di innovazione, sostengono il cambiamento. Ma tra cambiare e improvvisare passa molta differenza. Ecco perché come classe dirigente abbiamo sentito il dovere di darci un metodo di lavoro anche all’interno della nostra Organizzazione dando vita a Commissioni tecniche, ciascuna per ogni settore industriale, alle quali partecipano colleghi che hanno competenze conformi al progetto da elaborare. Su energia, Industria 4.0, infrastrutture, trasporti e logistica, siderurgia, sanità, chimica e farmaceutico abbiamo messo in campo idee e soluzioni. Sono tutti dossier che condividiamo con le istituzioni parlamentari, con il governo e con gli stakeholder. Non ne facciamo documenti ad uso interno. Vogliamo contribuire al rilancio del Paese su traiettorie che richiedono impegno e rispetto, puntando a farci risalire nelle graduatorie di benchmarking. Stesso atteggiamento proattivo per alcuni casi aziendali strategici. Dalle aziende a partecipazione pubblica, all’Ilva, al Gruppo FCA o alla TIM, stiamo sperimentando in stretto coordinamento con il management aziendale piani di sviluppo integrati con un orientamento di politica economica più generale, che tenga conto dell’interesse della collettività. La possibilità di costruire un sistema economico vitale passa dalla possibilità che ci diamo di tener salda la coesione sociale. Se non è ancora compromessa, è perché questo Paese è stato costruito sulla solidarietà e sulla tenuta delle famiglie, sul ponte vivo tra le generazioni. Quando si attaccano le pensioni, con l’incapacità di presentare i dati previdenziali per come sono, mischiando assistenza e previdenza, non solo si danneggia chi ha dato tanto e a lungo a questo Paese, ma si ferisce anche la speranza delle nuove generazioni di poter contare su un futuro di equità e di giustizia.
Perciò chiudo ribadendo l’appello: è ora di ripartire dalle persone e dalle loro capacità.
La differenza la facciamo noi e, in questo senso, come organizzazione di rappresentanza del management rilanciamo con orgoglio la “vocazione profonda” di questo grande Paese: una collettività fatta di persone creative e innovatrici, che ha saputo valorizzare la diversità di storie e cultura di ieri, e che ci può fare ancora più grandi.
Ascolta l'intervento del Presidente Cuzzilla
I lavori dell'assemblea sono proseguiti con il saluto del Cardinal Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che è possibile riascoltare cliccando qui.
01 luglio 2017