Manager all’opera per un Paese protagonista

Sintesi della relazione di apertura dell’Assemblea Federmanager 2019 del Presidente.

Stefano Cuzzilla 

Presidente Federmanager
Buonasera all’Italia che costruisce! 
Voglio essere, prima ancora del presidente, la voce di una collettività di donne e uomini di talento, di manager, di persone che orgogliosamente chiamo colleghi. Abbiamo un gran bisogno di un’Italia di principi condivisi, inclusiva e determinata a giocare un ruolo protagonista nel mondo. Riconoscerci italiani, in un momento storico in cui sarebbe facile strumentalizzare, o dire “prima noi e dopo gli altri”, è un atto di coraggio. Possiamo farlo, perché siamo classe dirigente e siamo élite. Élite non è una brutta parola se sappiamo riconoscerne il senso. Noi manager siamo persone di azione: abbiamo il dovere di immaginare, creare e costruire un Paese migliore, perché solo gli uomini piccoli fanno piccoli sogni. Siamo l’Italia che costruisce, che guarda oltre e più lontano. Siamo la parte del Paese che sente la responsabilità etica delle ricadute sociali delle proprie scelte, che non abbandona l’idea di progresso per sostituirla con quella di un neutro sviluppo. Siamo quel genere di persone che abbracciano la visione di una maggiore ricchezza per tutti. Che non ha paura del capitale, della finanza e del liberismo, ma che privilegiano l’economia reale. Ci appartiene l’idea di un Paese che coltiva una prospettiva di futuro. Per questo siamo all’opera, costantemente.
Ci impegniamo in azienda e anche dopo, quando raggiunto il pensionamento, continuiamo a restituire esperienze e contributi per crescere. A questa parte di Italia che costruisce, che si impegna e di cui sono fiero, dico che Federmanager è al vostro fianco. Ricordiamoci chi siamo, quindi, come prima cosa e cerchiamo di capire cosa abbiamo di fronte, perché non sono pochi gli ostacoli da superare. In questa mia relazione ne analizzerò alcuni e non avrò paura di puntare il dito contro le inefficienze attuali e le minacce prossime. Dirò le cose come stanno, indirizzando il messaggio del management industriale a chi ha la responsabilità dell’azione di governo, a qualunque livello la eserciti. Pertanto, parlerò di Europa, di opere grandi e piccole, di produttività, lavoro e tecnologia, con l’idea che non esiste ambito che valga la pena di essere analizzato senza aver chiarito prima, come ho tentato di fare, chi siamo noi e perché il management italiano rivendica il sacrosanto diritto di dire ciò che va fatto.

Cliccando il video di seguito è possibile rivedere l'intero intervento.

Noi siamo innanzitutto europei

L’Europa è l’orizzonte minimo su cui ci confrontiamo. Il management industriale ha abbattuto prima di altri i muri tra gli stati. Parole come dazi, protezionismo e dumping ci sono nemiche. Questo non significa rinunciare ad adottare una strategia per l’Italia. Abbiamo un gran bisogno di una visione strategica per lo sviluppo del Paese.  La nostra strategia presuppone l’Europa, non la suppone. A due settimane dalle elezioni che rinnoveranno il parlamento di Bruxelles, il nostro messaggio è plastico: serve maggiore unità, serve un soggetto politico europeo e serve un’agenda europea. Ci sono ragioni di mercato, ragioni sociali e demografiche a sostegno di questa tesi. Il mercato ci impone di fare massa critica, sommando i Pil nazionali arriviamo a valere oltre il 20% del Pil mondiale. L’economia europea, in termini di valore totale, supera quella statunitense. Le dispute sull’utilità o meno dell’euro sono, per noi, irricevibili. Nell’eurozona lavorano oltre 158 milioni di persone ed è un dato in crescita. Possiamo ritenerci innanzitutto europei, oppure finire sotto scacco, fuori dalla competizione mondiale. È in particolare la Cina a ricordarcelo. La Belt and Road Initiative può trasformarci in una terra di conquista, come in un nuovo colonialismo a guida cinese, oppure aprirci la strada per un commercio più vivido. Tra il 2007 e il 2017, il più elevato tasso di crescita delle esportazioni di merci europee è registrato proprio verso Pechino. Per quanto riguarda l’import, gli aumenti più consistenti vengono dalla Cina (+60 %) e dall'India (+66 %).  Le politiche industriali nazionali sono troppo conflittuali, forse per motivi di bandiera. I dati invece parlano chiaro: per ciascuno degli stati membri, gli scambi di merci intra UE sono superiori a quelli extra Ue. È chiaro che la concorrenza interna indebolisce se è antagonistica. È altrettanto chiaro che cooperazione e regolamentazione comune possono invece rafforzarci.

Difesa e sviluppo del Welfare

Dal punto di vista sociale, dobbiamo difendere il modello che ha costruito il welfare state, che riconosce i diritti umani, che in definitiva ha bandito la guerra dal proprio suolo. Ci aveva insegnato Keynes a prima guerra mondiale conclusa, che la pace ha specifiche conseguenze economiche. La sicurezza non sta affatto nell’occupazione e nella difesa di frontiere più ampie, bensì nelle prospettive di benessere in cui confidano i cittadini. Demograficamente, poi, l’Europa è sempre più vecchia. Perché viviamo più a lungo, prima evidenza dello stato di benessere, ma anche perché le nascite sono meno numerose. Una popolazione anziana non solo è meno dinamica, ma rischia il disequilibrio nel lungo termine, il che vuol dire più spesa. Perciò la nostra vecchia Europa deve trovare gli strumenti per aumentare la natalità, a cominciare dal sostegno alle donne lavoratrici e far entrare l’immigrazione qualificata dagli altri paesi. In qualche modo, deve porsi il problema di come essere attrattiva, per i più giovani e per i più capaci. L’unificazione europea ci ha reso forti e questo processo, per noi, non è reversibile. Eppure ci troviamo in una condizione orwelliana, in cui tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. Così gli stati membri tra loro, tutti uguali ma alcuni di più. Il tema è se l’Europa a più velocità sarà in grado di risolvere almeno tre questioni: l’euro, la sicurezza e la crescita economica. In ciascuno dei tre campi l’unica chance è attuare politiche unificanti. Parlo dell’unione fiscale, del compimento del mercato unico, dell’armonizzazione delle regole della giustizia, di un’unione bancaria, e di un esercito europeo. Il punto è scegliere se restare la patria dei cosiddetti soft power (democrazia, libertà, convivenza civile e sviluppo culturale) o piuttosto integrarli con gli “hard power”, che tradizionalmente son armi e mercato. Tutte cose di cui si discute da decenni, che implicano una riorganizzazione politica che deve trovare negli stati nazionali la prima spinta. Ecco perché il 26 maggio spero ci sia grande affluenza alle urneIl voto forse non sposterà gli equilibri di quel tanto che servono. Però sarà un appuntamento democratico che, auspichiamo, ci possa rafforzare.

Le Opere

Opera è una parola poliedrica. Non a caso la utilizziamo per l’arte, la musica, l’ingegno, l’artigianato, la manifattura. Opera è la parola che associamo al genio di Leonardo, di cui ricorrono i 500 anni dalla scomparsa. La sua capacità di invenzione e sperimentazione ha aperto le porte a un rinascimento industriale di cui siamo stati il fulcro. Si dirà, oggi, noi non siamo più la patria del rinascimento. Lo è forse la Silicon Valley. Lo sono, meglio, Singapore o Shenzhen. Fermiamoci un momento a riflettere su un aspetto apparentemente secondario. Riflettiamo sul contesto. Quanto è determinante il contesto a che un’opera, come l’Uomo vitruviano, venga alla luce? Ecco, senza ecosistemi, senza reti, la società non progredisce. La verità è che non possiamo influenzare ciò a cui non siamo connessi. L’Italia che costruisce rinnova l'appello alla realizzazione di nuovi ecosistemi che collegano le produzioni, i centri di ricerca con le imprese, le città con le periferie. 
Dalla nostra Assemblea parte un messaggio cristallino su questo: le opere infrastrutturali, grandi o piccole che siano, vanno fatte “e basta”. Sono sinonimo di modernità e di accelerazione. Sono soprattutto strutture che uniscono. Come è stata “la grande via del traffico e del lavoro che unisce il settentrione e il meridione del Paese”. Sono dovuti passare più di 60 anni perché avessimo compiuto il progetto della Salerno-Reggio Calabria.  E la storia sembra ripetersi con la Tav, l’infrastruttura su cui siamo riusciti a dividere il Paese, anziché collegarlo ai nostri vicini d’Oltralpe. La Tav è l’esempio più lampante della strumentalizzazione politica di un investimento strategico. Sulla Tav si sta giocando una partita di consenso. Altro che analisi costi-benefici su cui, se possibile, avanziamo tutti i nostri dubbi. Se potessimo muoverci da soli, noi avremmo già costruito la Tav. Non possiamo accettare lo stallo. Non possiamo soprassedere sul fatto che se si spreca l’investimento pubblico, si sabota l’attuazione, si variano i progetti, i primi a pagare sono i cittadini. Pagano le imprese e pagano i lavoratori. Potremmo elencare tutti i cantieri fermi o raccontare della burocrazia che chiede all’impresa di indicare i nomi dei fornitori a cui affidarsi nell’eventualità di un’aggiudicazione che, se va bene, gli farà aprire il cantiere tra cinque anni. Nel nostro Paese sono in vigore oltre 110mila leggi. Ci confrontiamo con manovre di Bilancio lunghe quasi come i Promessi Sposi di Manzoni, come ha notato Sabino Cassese. La nostra burocrazia è arrivata a valere il 4,6 del nostro Pil. Non è certo un problema solo di questo governo. È una situazione incancrenita che non è più sostenibile.
Il tema delle infrastrutture è collegato strettamente alla produttività di un’economia. Trovo davvero imbarazzanti i commenti sulle variazioni del Pil. Non siamo in recessione per decimali di punto, e abbiamo davanti lo spettro dell’aumento dell’Iva. Tra il 2000 e il 2016 la produttività del lavoro in Italia è aumentata dello 0,4%. In Francia, nel Regno Unito, in Spagna del 15%. Del 18,3% in Germania. La parola “produttività” nel contratto di governo è citata un’unica volta, e per giunta quando si parla del sistema giustizia. Dovremmo invece ristabilirne il primato. “La produttività non è tutto”, è stato detto, “ma a lungo termine è quasi tutto
Vantiamo una posizione logistica, al centro del Mediterraneo, che dovrebbe da sola portarci vantaggio competitivo e non la sfruttiamo. Se Trieste e Genova diverranno l’attracco cinese nel Continente, non è certo per conquistare uno spazio politico. Piuttosto, le infrastrutture segnano i rapporti economici, allargando lo spazio funzionale in base al modo con cui lo utilizziamo. Prendiamo Dubai. Un numero di turisti che ha superato Londra o Parigi. Il 90% della popolazione residente di nazionalità straniera. Emirates Airlines prima compagnia su destinazioni africane. Oltre 20mila aziende che lavorano a stretto contatto in 200 Zone Economiche Speciali. Secondo il World happiness report 2013, perfino sopra ad Usa e Lussemburgo per “tasso di felicità” dei suoi abitanti. Dubai, sorta in mezzo al deserto, è la dimostrazione che la presenza di infrastrutture di livello mondiale è ciò che fa la differenza tra occupare una posizione geografica conveniente e diventare un vero hub internazionale. Abbiamo chiaro cosa significa? Abbiamo chiaro quale ruolo ci spetti in questo nuovo ordine globale? 
Una virtù delle politiche industriali dovrebbe essere la capacità di trattenere gli investimenti. Questa è una tipica abilità manageriale, che molti di noi hanno imparato a esercitare bene. Sappiamo che gli investimenti richiedono fiducia e, a loro volta, creano fiducia reciproca tra paesi. E sappiamo che per questo sono anche molto volubili, si spostano al primo cambio di vento. La fiducia si costruisce anche con gli interventi in infrastrutture e logistica. Non solo opere fisiche, ma anche virtuali: reti digitalibanda larga5G e Cloud. Questo piano di investimenti, compartecipato da pubblico e privato, disegnerà la nostra possibilità di porci come Paese industrializzato. Se sapremo essere all’avanguardia, se sapremo essere competitivi, se sapremo crescere, avremo effetti sull’occupazione e sulla qualità del lavoroSoltanto così si costruisce il vero reddito di cittadinanza, che è quello che dura per sempre

A proposito di reti digitali. Il terzo tema fondamentale per noi manager riguarda proprio la tecnologia. L’impatto che la tecnologia è destinato ad avere su produttività e lavoro. Tra tutte le rivoluzioni industriali  quella attuale si connota per almeno 4 caratteristiche. Primo, è straordinariamente veloce. Secondo, è pervasiva, perché tocca trasversalmente tutti i processi, i prodotti, il modo stesso di organizzare l’impresa. Terzo, è a suo modo antropologica, come dimostra l’impatto che l’intelligenza artificiale sta generando sulle catene del valore, con effetti etici sulla relazione uomo-macchina. Quarto, è dannatamente selettiva: chi non sta al passo, non reagisce e non si trasforma, viene fatalmente estromesso dai giochi. Temo che su queste implicazioni non si sia riflettuto abbastanza. Non si può dare priorità agli sgravi sugli investimenti in beni strumentali senza preoccuparsi delle persone che devono gestirli in azienda

Accogliamo con favore la notizia del super ammortamento del 130% appena riconfermato dal Decreto legge Crescita. Abbiamo collaborato con il governo, e oggi ribadiamo la nostra ampia disponibilità in tal senso, per introdurre una piccola ma fondamentale misura nota con il nome di “voucher per l’innovation manager”. È un segnale importante che il Ministro Fraccaro conferma oggi con la firma del Decreto. 
I manager specializzati nell’innovazione sono figure capaci di gestire una complessità di attività che vanno dalla riconversione delle produzioni e delle funzioni aziendali, all’interazione con i robot intelligenti, alla gestione della connettività dell’IoT o, ancora, della possibilità di interfacciarsi con machine learning e big data. L’investimento nel capitale umano deve diventare una priorità di sistema. Una priorità per il decisore pubblico, ma anche per l’imprenditore. Mi rivolgo prima agli imprenditori in sala, al presidente Boccia e al presidente Casasco che interverranno dopo di me. So che condividete questa visione, ne abbiamo parlato tante volte. L’impresa per crescere va managerializzata e i manager devono aggiornare le proprie competenze per consentire all’impresa di fare il salto di qualità. Il nostro Paese ha il 98% di piccole e medie imprese. Moltissime hanno carattere familiare e tra loro, il 70% ha l’intero management che è espressione della famiglia. Nei passaggi generazionali, si sgretolano perfino le realtà più virtuose: un’impresa su tre non sopravvive al cambio. Capiamo che la scarsa managerializzazione delle imprese italiane rappresenta un freno alla modernizzazione del Paese.
I nostri dati evidenziano una tenuta dell’occupazione manageriale, ma sempre più concentrata nelle imprese più grandi, mentre le Pmi faticano a competere. Sappiamo che le imprese che si sono affidate a manager esterni hanno superato la crisi e hanno aumentato la loro produttività. Questa trasformazione 4.0 è troppo veloce, troppo pervasiva, antropologica e selettiva, per consentirci di fare a meno l’uno dell’altro. L’alleanza manager e impresa è una delle risposte che dobbiamo dare a questo PaeseQuesto è un momento assolutamente decisivo e alle volte per decollare bisogna mettersi contro vento.

Agenda di Governo

Al governo, alle istituzioni rivolgo un appello. 
La situazione richiede franchezza: dopo i navigator e il reddito di cittadinanza, avremmo bisogno che si muovessero investimenti per favorire l’innovazione, con priorità la formazione di competenze digitali di elevato profilo. Servono piani di investimento di lungo periodo su cui fare affidamento, per questo, su Impresa 4.0 e tutto ciò che ad essa è correlabile, noi pretendiamo continuità di governo. In un momento in cui la produttività tedesca sta rallentando, il nostro Paese deve esprimere continuità per ridurre il debito pubblico e per rilanciare l’industria. La pressione fiscale è ormai al 43% del nostro PilIl carico fiscale sul lavoro può sfiorare il 120%. Il punto non è la flat tax, né il salario minimo. Il vero nodo è agevolare l’occupazione attraverso un’organica riforma fiscale che alleggerisca la morsa. Stiamo perdendo talenti, perché la verità è che all’estero li trattano meglio! Stiamo perfino pregiudicando le opportunità di affermarsi delle nuove generazioni, non aggiornando programmi scolastici e formazione universitaria. Ogni anno abbiamo 8.000 diplomati negli ITS, contro gli 800.000 circa della Germania. Per non parlare dei bassi tassi di occupazione femminile, conseguenza di un sistema che ancora considera le materie STEM appannaggio degli uomini. Non è più sostenibile il tasso di skills mismatch registrato in Italia. Parliamo di un lavoratore su tre che non incontra il fabbisogno delle imprese, il dato peggiore tra quelli presi in esame dall’Ocse. Ci sono certamente esempi positivi di avanzamento in campo tecnologico, ma non sono portati a sistema. Penso alle esperienze di tanti colleghi in pensione che hanno scelto di investire tempo e capitali, nella crescita di giovani start up. Molti di noi hanno davanti agli occhi l’immagine di ICube, il robot dalla faccia simpatica su cui lavora da anni l’Istituto italiano di tecnologia di Genova. Potrei citare tanti casi di eccellenza italiana per convincerci che abbiamo stoffa da vendere. Ma la competitività di un Paese non si costruisce sulle eccezioni, né sul sacrificio, per quanto grande, di pochi. I nostri tassi di venture capitalist sono tra i più scarsi. Da noi si investe, in valore assoluto, un cinquantesimo di quanto fanno negli Stati Uniti, meno di un quinto rispetto alla media europea. Va bene, va benissimo, aver istituito il Fondo nazionale per l’innovazione. Le start up innovative vanno finanziate dallo Stato e questa è una buona notizia. Ma l’obiettivo deve essere la creazione di ecosistemi il più possibile interconnessi, capaci di condividere informazioni e finanziamenti, e integrarli a livello paese. Se vogliamo essere competitivi, dobbiamo ripensare il rapporto tra lavoro e tecnologia a partire dall’investimento nel sistema del sapere. Siamo di fronte a una sorta di tecnoumanesimo: il futuro, straordinariamente intelligente; il presente che lo è molto meno. Facciamoci i conti. 

Avere una convinzione e avere un’opinione sono due cose ben distinte. Abbiamo parlato di Europa, infrastrutture, lavoro e tecnologia. In questa parte finale della mia relazione voglio però concentrarmi a descrivervi ciò di cui noi, in Federmanager, siamo convinti. 

Tre convinzioni

Primo. Il futuro dipenderà dalla nostra sete di conoscenza. 
Federmanager ha un disegno preciso: assurgere ad Accademia del management, il luogo che crea concrete opportunità di sviluppo di carriera. Dove si condivide e, se è possibile, si anticipa la conoscenza. Dove si formano i nuovi leader. Quest’anno abbiamo condotto un lavoro di ricerca ad ampio spettro per capire come essere bravi manager tecnicamente e manager bravi come persone. Abbiamo compreso che la formazione deve essere continuativa e mirata. Che deve riguardare anche le cosiddette soft skills. E il digitale, che è certamente una sfida. Questo approccio è la vera politica attiva del lavoro. Un approccio che abbiamo la responsabilità di diffondere in azienda e di sperimentare con i nostri collaboratori. 

La seconda convinzione riguarda il nostro ruolo di rappresentanza, che svolgiamo all’interno del sistema CIDA: i corpi intermedi servono eccome. Non possiamo, però, limitarci a fissare i paletti sotto cui non è possibile andare, dobbiamo introdurre schemi innovativi di contrattazione per affermare condizioni al rialzo. Questa è la premessa per una nuova cultura della rappresentanza che si autodetermina nella sua funzione soprattutto sociale. Federmanager intende svolgere un ruolo guida per il Paese. Perché l’Italia ha bisogno di valorizzare le competenze manageriali di cui è ricca per crescere. Un esempio è il progetto che abbiamo appena lanciato con il nome di “Governance2020”. Sosterremo i colleghi che rispondono a precisi requisiti di selezione che abbiamo affidato a primari consulenti sul mercato, nel candidarsi a partecipare alla governance delle società più rilevanti che andranno a rinnovo la prossima primavera. Proprio dove l’interesse privato collima con l’interesse generale, devono prevalere competenza e responsabilità. A determinati livelli, chi si assume decisioni lo deve fare sapendo che dalle sue scelte può derivare un profitto per pochi oppure una crescita per molti. La scelta non è banale e, in un periodo in cui onestamente scarseggiano candidati, il ruolo dei corpi intermedi è anche quello di favorire l’avanzata dell’eccellenza, di far prevalere il merito, di dare un contributo al Paese. Con questa visione, nel sistema Federmanager, promuoviamo anche soluzioni in campo previdenziale e sanitario. L’integrazione pubblico e privato è l’orizzonte su cui rafforzare il sistema di welfare per tutti. 

Terza convinzione: non ci sarà progresso se non terremo bene a mente la questione ambientale. 
Sulla sostenibilità ambientale si faranno gli investimenti più consistenti nel prossimo futuro. Ci sono aziende che ormai riconoscono in modo esplicito che il proprio business dipende dal capitale naturale. Interi settori, a partire dall’energia fino all’automotive, si stanno riconvertendo. Il concetto stesso di smart city considera inscindibili tecnologia e ambiente. La sola economia circolare vale già più di 3.000 miliardi di dollari. Il mercato ci chiede, anche in questo caso, di fornire competenze manageriali adeguate alla sfida. E non è un caso che Federmanager stia per avviare un nuovo programma di certificazione dedicato al profilo del “manager della sostenibilità”. Lo facciamo per rafforzare il contributo dei manager per la costruzione di un’economia più responsabile, ma anche perché dobbiamo rispondere a ciò che le nuove generazioni, con i loro Fridays for Future, stanno urlando a gran voce. 
Concludo con un’ultima convinzione, che riguarda la condizione femminile a cui ho fatto cenno. Per risollevare il Paese basterebbe dare alla componente femminile della popolazione pari opportunità di lavoro e salario. Se impiegassimo un numero di donne pari a quello degli uomini, il Pil globale aumenterebbe del 26% e quello italiano del 15. I nostri dati ci dicono che appena il 14% dei manager italiani è donna. È dimostrato che le skills femminili contribuiscono a migliorare i risultati, ma anche clima e reputazione aziendali.
Promuoviamo all’interno del sistema Federmanager sistemi di welfare che consentono la conciliazione vita lavoro, che sviluppano salute, previdenza, smart working e assistenza per i figli e gli anziani. Oggi manifestiamo pubblicamente il nostro sì alla riproposizione della Legge Golfo Mosca e ci diciamo favorevoli al sistema delle quote fin quando in questo Paese la parità non sarà nei fatti. Se i fatti e la teoria non concordano, noi dobbiamo cambiare i fatti! È ciò che ho imparato ascoltando le nostre colleghe, facendomi raccontare le loro fatiche, le loro rinunce. Questo è un tema di civiltà, prima ancora di essere un tema economico. È un tema che continueremo a portare avanti e che rappresenta il modo migliore con cui salutarvi. 

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