Previdenza all’italiana

Analisi e riflessioni senza vincoli elettorali, nell’interesse del Paese e delle future generazioni condivise in occasione dell’incontro CIDA Lombardia del 20 giugno portano a concludere che …. è essenziale mettere in atto con urgenza azioni volte a favorire l’emersione fiscale e ridurre la spesa pubblica improduttiva.

Alberto Brambilla

Presidente Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

Nel 1992, la situazione del nostro Paese era disastrosa – l’età pensionabile era pari a circa 50 anni, contro una media europea di 60 – e se si fosse voluto mettere subito rimedio a tutto sarebbero servite azioni devastanti, del tutto insostenibili sul piano politico e sociale: da qui la necessità di procedere con una serie di successive riforme, nel tentativo di rimediare alla situazione.
In effetti, guardando al passato, si nota che l’inizio del disastro pensionistico italiano si può far risalire al 1969 con la “Riforma Brodolini”, che introdusse, fra le altre generosità, la formula retributiva per tutti e la pensione di anzianità, che di fatto abbassò drasticamente l’età pensionale, che prima era di 65 anni circa, quando il modello pensionistico era contributivo.
In quel momento quindi, proprio quando cominciò a manifestarsi il fenomeno dell’aumento dell’attesa di vita, in Italia è iniziata una politica di pensionamenti precoci, che non poteva non mettere fuori equilibrio il sistema, cosa denunciata immediatamente, ma inutilmente, da molti economisti e dal CNEL nel 1972.
Purtroppo, negli anni ’70 ed ’80 la politica previdenziale ha guardato più agli interessi elettorali e di parte che non alla sostenibilità del sistema, ed ancora nel 1991, dopo le elezioni, furono introdotte regole per le categorie autonome deleterie. Nel complesso quanto fatto in tale periodo ha creato un enorme debito pubblico, che era in linea con i parametri europei alla fine degli anni ’70 e che oggi ereditano le generazioni più giovani, che devono anche fare i conti con un mercato globalizzato, e quindi molto più competitivo.
Nel 1992 cominciano finalmente ad essere attuate riforme volte a riportare il sistema in equilibrio, riforme che però, arrivano a “tamponare” in più fasi le falle del sistema, per evitare un impatto sociale insostenibile, con l’obiettivo di ridare sostenibilità al sistema previdenziale piuttosto che sviluppare un modello coerente con il contesto di progressivo cambiamento.
Nel frattempo si comincia anche a guardare con più attenzione alla struttura del debito previdenziale che concorre per il 72% del debito pubblico, avviando la separazione fra i costi effettivamente previdenziali e quelli assistenziali: ad oggi tale separazione è possibile per circa il 95% dei costi, e si è così potuto dimostrare che il bilancio del sistema pensionistico è tuttora in equilibrio se depurato del carico fiscale e dei costi assistenziali, fra cui va inclusa l’integrazione al minimo a 4,6 milioni di pensionati.
In pratica il sistema in Italia ha provveduto a distribuire assistenza a pioggia a moltissimi soggetti, che spesso non avrebbero dovuto esserne beneficiati. Il 50% degli italiani non paga tasse e contributi pur vivendo benissimo, e grazie a questo beneficia anche dell’assistenza dello Stato: ciò è chiaramente ingiusto nei confronti della minoranza che paga per sostenere tutto il sistema; tale sistema, dal punto di vista strettamente previdenziale, oggi è in equilibrio, ma è troppo rigido, e non ha le risorse per poter finanziare un allentamento di tale rigidità.
In Italia abbiamo al momento ancora un sistema che, complessivamente, prevede troppa assistenza non giustificata, ben 93 miliardi di assistenza lo scorso anno rispetto ai 172 miliardi del sistema pensionistico, ed un sistema fiscale che non funziona, e tutto ciò grava su un sistema previdenziale che, grazie all’applicazione generalizzata della formula contributiva, ha trovato il suo equilibrio di gestione, ma che è costantemente in difficoltà nell’erogare i trattamenti in quanto si tratta comunque di un sistema a ripartizione, in cui le pensioni sono pagate con quanto si incassa dai contributi di chi lavora. Tale modello richiederebbe per funzionare un rapporto di 1,55 fra attivi e pensionati, mentre oggi siamo a 1,36, e pertanto, per tenere in piedi il sistema mancano, in assoluto, circa 2,5 milioni di occupati.
Quindi le criticità del nostro sistema sono:
a) troppa assistenza;
b) un sistema fiscale che non funziona;
c) un rapporto equilibrato di 1,55 fra attivi e pensionati che impone un maggior tasso di occupazione.
Da questa considerazione discende che, per tenere oggi in piedi il nostro sistema previdenziale, è necessario rilanciare l’occupazione; un problema che riguarda tutti i Paesi OCSE perché tutti hanno sistemi previdenziali a ripartizione, e fra questi l’Italia in particolare con oltre il 40% di disoccupazione giovanile.
In questo contesto l’azione di CIDA può essere molto importante, rappresentando un insieme di Federazioni di manager, così da avere alle spalle numeri tali da fare “massa critica” e rendere più udibile e rilevante la spinta verso una maggior flessibilità in uscita ed un più favorevole rapporto fra lavoratori e pensionati.
Le altre azioni da intraprendere, riguardano il rafforzamento e riequilibrio del sistema fiscale, che invece sta ancora sbilanciandosi: i dati più recenti rilasciati dall’Agenzia delle Entrate dimostrano che le persone fisiche che presentano la dichiarazione sono in costante diminuzione. Nel 2014 erano meno di 40,5 milioni, con una diminuzione di 1 milione rispetto a tre anni prima e solo 30 milioni di italiani (la metà del totale) ha un reddito positivo, tanto che, a conti fatti, la gran parte dell’IRPEF e delle varie addizionali è pagata dall’11,2% della popolazione.
In pratica, molti italiani in età da lavoro non dichiarano reddito ma, nonostante questo, la popolazione italiana resta nelle prime posizioni in molte delle classifiche calcolate sugli indici di ricchezza, dal risparmio privato alla diffusione dei SUV, a riprova che qualcosa non funziona, e che si sta facendo molto poco per rimediare, rispetto alla maggior parte degli altri Paesi. In Germania e Svizzera, per esempio, se dopo i 31 anni non si è mai dichiarato un reddito si riceve in automatico un “avviso bonario” che lascia 6 mesi di tempo per spiegare di cosa si vive. Dopo di che, non rispondendo, si va incontro a problemi veri, dato che l’evasione fiscale porta in carcere, ed oggi nelle galere tedesche circa 4.000 detenuti scontano pene per tali reati.
In Italia invece si continua con una politica che penalizza sempre le stesse fasce di popolazione, attraverso un sistema fiscale che prevede una progressività crescente, perché proporzionale al reddito e con aliquote crescenti, ed ammette le detrazioni solo per coloro che sono al di sotto di certe fasce di reddito: in questo modo si spingono i contribuenti, che possono, a fare di tutto per stare sotto tali soglie, con il risultato di vedere non solo le detrazioni applicate anche a sproposito, ma anche l’occultamento di ampie quote di reddito.
Ciò affligge non solo il sistema fiscale, ma anche quello previdenziale, perché a bassi redditi corrispondono contributi bassi o nulli: a tutti questi lavoratori (autonomi) che non stanno contribuendo che pensione sarà possibile dare?
In pratica, in Italia stiamo sostenendo un welfare da Paese avanzato con un sistema fiscale da terzo mondo, con metà dei cittadini che, apparentemente, non hanno un euro di reddito, mentre si spendono 84 miliardi all’anno in lotterie, ed una decina di miliardi in maghi e fattucchiere – più di quanto va in previdenza integrativa! Come si può pensare di reggere?
È essenziale mettere in atto con urgenza azioni volte a favorire l’emersione fiscale e ridurre la spesa pubblica improduttiva.
Altre risposte strutturali non ce ne sono: parlando del sistema previdenziale, per esempio, la soluzione che propone ANIA, che tiene in vita il sistema attuale per chi ha poco e chiede a chi ha di più di pagarsi una pensione integrativa, di nuovo penalizza chi ha più reddito e ripropone il meccanismo che favorisce i bassi redditi, e quindi di stimolare l’evasione; esattamente il contrario di quel che dovrebbe fare un Paese che vuole premiare il merito.
In presenza di una spesa in assistenza: sanitaria, pensionistica ed in generale pubblica, pari al 53% della spesa totale, percentuale non ulteriormente espandibile ed anzi da ridurre; se si vuole riuscire a finanziare il welfare italiano fondato sui nostri sistemi di sanità e previdenza è indispensabile rivedere al più presto e radicalmente il sistema fiscale, per ridurre l’enorme massa di redditi sommersi, la cui esistenza è testimoniata da tutti gli indicatori indiretti, attraverso una politica che smetta di penalizzare in modo sistematico e vessatorio i redditi alti, e permetta di far sì che a pagare non sia sempre lo stesso 11% della popolazione, come invece avviene oggi.
Per cambiare le cose è necessario avere la possibilità di “sbugiardare”, con dati oggettivi, la politica, ed oggi questo, se non impossibile, è molto difficile, anche perché, di fatto, il 50% degli italiani che lavorano non paga contributi e tasse, ed in sostanza è da sempre mantenuto e complice del sistema: è questo il vero problema del Paese, ma dirlo è ovviamente molto impopolare e praticamente proibito. Tutti hanno paura di dire la verità, che però i dati rendono incontrovertibile, e che è sempre più evidente: ormai in Italia qualsiasi forma di “ascensore sociale” è del tutto bloccata, ed in tempi sempre più brevi l’intero sistema finirà per collassare per mancanza di risorse.
Tra l’altro, negli ultimi tempi è invalso anche l’uso di cambiare in corsa le regole del gioco previdenziale, finendo con il sottrarre contributi a coloro che li avevano versati: questo comportamento è molto pericoloso e significa scherzare con il fuoco, perché porta tutti a domandarsi per quale ragione si debba essere corretti a versare la propria parte di contribuzione, se questa può essere sottratta unilateralmente.
Queste forme di scorrettezza da parte delle istituzioni, assieme ad atteggiamenti che sono in genere unilaterali ed ideologici, rendono anche difficile discutere di possibili forme di comportamento solidale.
Nella battaglia per portare alla luce la verità, è possibile che proprio l’azione di CIDA possa essere utile, in quanto, andando essa a parlare in nome e per conto di un pacchetto significativo di categorie e di persone, potrebbe dare alle alte professionalità quella massa critica necessaria a garantire visibilità ed a far circolare dati ed informazioni corrette per sostenere proposte utili al futuro del Paese.

Interventi degli Associati

Michele Carugi, nel ringraziare Alberto Brambilla per aver dato concretezza anche al suo pensiero, rileva che siamo in un sistema democratico in cui la maggioranza sta abusando delle sue prerogative per promulgare leggi vessatorie nei confronti di una minoranza di persone ad alto reddito e ceto medio, oggetto di continua aggressione.
Un problema nel problema è costituito dal messaggio che questo modo di fare trasmette ai giovani: in un mondo che penalizza chi ottiene risultati, i bravi puntano ad andarsene, e quelli che restano fanno di tutto per defilarsi rendendosi “invisibili” allo Stato con il lavoro in nero, l’evasione fiscale, etc. Nel contesto globale in cui viviamo, un Paese con tali princìpi è destinato alla povertà prima apparente e poi reale, come testimoniano i dati delle dichiarazioni dei redditi degli ultimi 20 anni che diminuiscono, in numero e valore.
Per non restare inermi è necessario offrire molta informazione strutturata e di qualità, basata su dati oggettivi ed incontestabili, che permetta di passare anche messaggi scomodi che normalmente non possono essere detti.
È quindi necessario attivarsi in una campagna informativa capillare, concreta e ferma, che non retroceda davanti all’aggressione ideologica e abbia il coraggio di difendere i diritti della minoranza vessata affermando i principi di civiltà, diritto e meritocrazia che prevalgono nei Paesi europei.

Antonio Succi, che ha partecipato il 30 maggio alla trasmissione Piazzapulita di LA7 sostenendo efficacemente le proprie posizioni sulle pensioni, ha chiesto di promuovere la separazione dei costi previdenziali da quelli assistenziali, eliminando anche gli squilibri ancora esistenti fra differenti categorie per standardizzare le metodologie di accesso e calcolo delle pensioni.
Bruno Salgarello ha proposto di analizzare insieme ai dati nazionali anche quelli regionali, per esempio della Lombardia rispetto ad altre regioni, per conoscere la situazione contributiva e di evasione nelle varie aree del Paese e sviluppare iniziative mirate a colpire le criticità proprio dove sono evidenti.

Giovanni Carnaghi, condivide l’analisi del prof. Brambilla che evidenzia la triplice penalizzazione dei redditi più alti per: tassazione progressiva per fasce di reddito, riduzione fino all’impossibilità di accedere ai benefici fiscali per le fasce superiori di reddito, ed impossibilità di accedere ai servizi ai quali si è contribuito: “se hai un reddito superiore a … non puoi beneficiare della mensa scolastica, dell’integrazione al minimo delle pensioni, non entri nella graduatoria per l’assegnazione delle case, etc. …
A fronte di evasioni fiscali e contributive mostruose, malcostume che danneggia le casse e l’immagine dello Stato, nonché di sperperi clientelari delle risorse pubbliche, cioè di noi contribuenti, propone di sviluppare un serio percorso che restituisca i nostri contributi, fiscali, previdenziali, frutto di onesta professionalità, per poterli investire in modo manageriale con la cura del "buon padre di famiglia" per innescare un percorso virtuoso, iniziando dalla creazione di condizioni per favorire maggiori opportunità di lavoro per sostenere il welfare oggi e per le future generazioni.

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