L’emozione del Concerto Jazz di Primavera

Una serata di musica ed emozioni raccontata da chi l’ha creata e vissuta

Giuliano Ceradelli

Componente del Gruppo Cultura - Sezione Musica - e direttore artistico del Concerto di Primavera


Cari amici,

come Direttore artistico dell’evento, già di buon’ora nel pomeriggio del 27 maggio scorso mi trovavo nella Sala del San Fedele con la solita emozione e anche l’apprensione perché tutto andasse per il verso giusto. Le parole “concerto” e “live” mettono sempre un po’ di pressione in chi organizza, anche se non si tratta della prima volta. Ma è andato tutto molto bene, anche grazie al tempo dedicato alla preparazione nei mesi precedenti con i nostri splendidi musicisti. 
All’ora stabilita la Sala era piena di colleghi entusiasti, con un nutrito contributo di presenze femminili, e durante il concerto c’è stata viva partecipazione con molti applausi sullo sfondo di un programma di brani tagliato sul genere “fusion” in omaggio a due gruppi americani degli anni ’70 del secolo scorso, i Weather Report e gli Steps Ahead, che hanno fondato il loro repertorio originale proprio su questo genere musicale (per ulteriori dettagli potete consultare il mio articolo Concerto di Primavera sulle note del Jazz pubblicato su questa Rivista).

Cercherò quindi qui di riassumere per quelli che non c’erano (e sarò felice di rispondere alle domande, perché sono sicuro che molti ne avranno, e sono anche sicuro che mi sfuggiranno delle cose che altri potranno aggiungere). 

Nel mio mondo, che non è l’unico ma è il mio, la mia regola basilare per l’amicizia è condividere tutto; quindi, nella scelta dei brani del concerto sono stato estremamente soggettivo e mi sono limitato a seguire la mia regola, quella di far ascoltare ciò che più amo. È stato fantastico e sono molto contento di essere riuscito a organizzare, grazie anche al supporto della struttura ALDAI, un evento che ha avuto il successo che si meritava pur nella sua intrinseca imprevedibilità.

Parlare di jazz, infatti, significa parlare anche di imprevedibilità, una caratteristica che, come musicista, apprezzo molto perché ben rappresenta il piacere del gioco estemporaneo con le note, l’evasione e la creatività, e anche l’amore per il rischio. Basti pensare a cosa hanno fatto Wayne Shorter e Joe Zawinul o Michael Brecker e Mike Mainieri (due colonne dei Weather Report i primi, e due colonne degli Steps Ahead i secondi) estendendo il raggio delle composizioni a brani di sempre maggiore complessità strutturale e ricchezza timbrica grazie all’evoluzione della strumentazione elettronica.
Ma parliamo del rischio. Il rischio estetico è il pepe del jazz ed esiste soprattutto quando il musicista esce dalle strutture musicali. 

Quando il rischio è controllato, il musicista sa da dove è partito, sa dove si trova quando improvvisa e sa dove potrebbe approdare con la sua improvvisazione. La grande libertà risiede all’interno delle strutture armoniche, da cui è possibile, magari brevemente, uscire per creare tensioni melodico-armoniche.

Certo, per me la “buona” musica (e non parlo solo di jazz) è pensiero, riflessione, ragionamento, intenzione, gioco, curiosità, scopo espressivo. Sotto l’etichetta “jazz” si possono collocare tante musiche, tutte legittime e a volte affascinanti, che piacciano o no. ll jazz è un linguaggio molto specifico e credo che le sue tipicità possano essere facilmente identificate: suono, pronuncia, atteggiamento mentale ritmico, estemporaneità, improvvisazione (entro e fuori strutture armoniche), armonia peculiare con suono peculiare, voicing, ecc. Il jazz ha sempre assorbito e/o arricchito, è sempre disponibile all’apertura, è un linguaggio eccezionale. È una straordinaria opportunità per chi lo suona e per chi l’ascolta. È una musica unica al mondo. Il jazz ha saputo trasformarsi entrando in contatto con moltissimi generi musicali, dalla bossa nova brasiliana alla salsa cubana, dalla musica classica alle varie musiche popolari ed etniche e al rock. Il jazz sta soprattutto nel “come” oltre che nel “cosa” si suona.

Quando il musicista improvvisa noi ascoltiamo musica non scritta, ma suonata come se lo fosse.
In un concerto jazz il pubblico si rende conto curiosamente che non tutto quello che viene suonato e ascoltato è stabilito: lo stesso musicista che suona non sa già esattamente “tutto” quello che andrà a proporre durante la sua esibizione, perché il jazz prevede ampi spazi dedicati all’improvvisazione e pertanto, pur muovendosi in genere in ambito scritto e prestabilito, i musicisti creeranno partecipazione ed enfasi emotiva all’interno di una dimensione specifica, in parte nuova e “improvvisata” appunto. Il pubblico potrà avere legittimamente perplessità sulla proposta che gli viene offerta, ma grazie all’ascolto poi potrà entrare nel mondo sonoro del musicista e partecipare con entusiasmo, scoprendo emozioni inaspettate. È questa la forza che rende il “rito del concerto” un incontro vissuto in una sala, legata alla disponibilità del pubblico a farsi sorprendere, ad accogliere l’imprevedibile: la scoperta di nuova musica e la partecipazione alla sua creazione sono il vincolo che si crea fra chi suona e chi ascolta. Il concerto, cioè il “fare musica insieme” è un importante laboratorio di socializzazione e di convivenza civile, perché la bontà della riuscita finale è legata alla positiva partecipazione di tutti e all’armonizzazione delle diverse competenze, grandi o piccole che siano.

Una società costruita sull’ascolto, come di un’orchestra o di un gruppo in concerto, è una società che può garantire a chi ci vive, serenità e pace, perché ascoltare è, prima di tutto e sopra ogni cosa, un grande atto d’amore; quindi, è con trepidazione che vi aspetto tutti per l’anno prossimo, al prossimo Concerto Jazz di Primavera sempre al San Fedele.

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