Una speranza tradita: la Corte Costituzionale e il congelamento della perequazione pensionistica

Ancora una volta, le aspettative di milioni di pensionati vengono deluse. Con la sentenza n. 19/2025, la Corte Costituzionale ha respinto i ricorsi contro l’art. 1, comma 309, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, confermando la legittimità del meccanismo di rivalutazione stabilito dalla norma. In altre parole, viene ribadita una penalizzazione che, da oltre vent’anni, erode il potere d’acquisto delle pensioni invece di tutelarlo. E, purtroppo, nulla lascia presagire un cambiamento: il sacrificio imposto ai pensionati sembra non avere fine

Foto di Romy da Pixabay

Mino Schianchi

Presidente Comitato Nazionale di Coordinamento Gruppi Seniores Federmanager e Presidente Comitato Pensionati ALDAI-Federmanager


I pensionati attendevano un segnale di equità, un riconoscimento del diritto alla giusta rivalutazione delle loro pensioni, erose da anni di misure punitive. Speravano che la Corte Costituzionale ponesse fine all’ingiustizia di un sistema che, in nome del risparmio pubblico, penalizza chi ha versato contributi elevati per tutta una vita lavorativa. Invece, la sentenza n. 19/2025 ha spento ogni aspettativa, confermando la legittimità dell’ennesima misura di “raffreddamento” della perequazione, introdotta con la Legge di Bilancio 2023. Un verdetto che ripropone il solito schema: i pensionati pagano il conto, i loro diritti vengono sacrificati senza che abbiano alcun peso nel bilanciamento degli interessi in gioco.

Un copione che si ripete da decenni

Ancora una volta, si perpetua una politica iniqua che considera le pensioni medio-alte come un bancomat dello Stato. Chi legge questa Rivista sa bene quante volte abbiamo affrontato questo tema. E lo sanno anche i pensionati. Non si tratta di un episodio isolato: da più di vent’anni, le pensioni medio-alte sono considerate una riserva a cui attingere per far quadrare i conti pubblici. Già nel 1997, il Governo dell’epoca azzerò la rivalutazione delle pensioni superiori a cinque volte il minimo, una misura che si è ripetuta più volte nel tempo, con Governi di diverso orientamento politico.

L’ingiusta legittimazione di un sistema penalizzante

C’era la speranza che qualcosa cambiasse, soprattutto grazie ai rilievi della Corte dei Conti della Toscana e della Campania, che avevano evidenziato il progressivo impoverimento delle pensioni. Anche noi, come Comitato Pensionati e come autori di questa Rivista, abbiamo sollevato più volte il problema. Ma la Consulta ha scelto di ribadire un principio ormai consolidato: la riduzione della perequazione automatica è legittima perché serve a garantire la sostenibilità del sistema previdenziale e a proteggere le fasce più deboli. Un ragionamento che, per quanto coerente con le esigenze di finanza pubblica, ignora un dato fondamentale: chi ha versato di più per decenni viene sistematicamente penalizzato da misure straordinarie che, ormai, sono diventate strutturali. L’illusione di un meccanismo di rivalutazione, basato sulla proporzionalità tra i contributi versati e il trattamento pensionistico, si sgretola inesorabilmente davanti a una sentenza che frustra ogni legittima aspettativa di cambiamento. Eppure, il concorso alla tenuta del bilancio pubblico dovrebbe riguardare l’intera collettività, come indicano i principi costituzionali.

L’evoluzione della giurisprudenza costituzionale sulle pensioni

La questione della perequazione pensionistica si inserisce in un quadro più ampio, quello dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia previdenziale. Dagli anni '60 e '70, la Corte Costituzionale ha cercato di portare equilibrio in un sistema normativo frammentato, intervenendo con sentenze volte a garantire maggiore equità. Ma dagli anni '80, il focus è cambiato: la Corte ha iniziato a bilanciare il diritto alla pensione con la necessità di contenere la spesa pubblica. Su questa base è stato introdotto il principio della discrezionalità del legislatore nella definizione delle prestazioni sociali, subordinandole alla disponibilità di risorse finanziarie. Una discrezionalità, però, con limiti: i provvedimenti non dovevano essere eccessivamente penalizzanti. Infatti, in passato, la Corte ha più volte ribadito che la pensione è la continuazione della retribuzione e deve garantire un livello di vita dignitoso. Le cose poi sono cambiate. Con l’acuirsi della crisi finanziaria dagli anni 2000, l’orientamento della giurisprudenza sembra essersi spostato sempre più verso il contenimento della spesa, con un impatto particolarmente pesante sulle pensioni medio-alte.

L’effetto trascinamento: una perdita che si accumula nel tempo

Mentre questo avveniva, un aspetto è stato trascurato nel dibattito pubblico sulla perequazione pensionistica: il cosiddetto “effetto trascinamento”, che provoca perdite cumulative e permanenti. Ogni volta che la perequazione viene limitata o sospesa, non si perde solo nell’immediato, ma anche negli anni successivi. Il risultato? Una progressiva erosione dell’importo della pensione, che diventa una perdita patrimoniale irreversibile. Questo accade perché il meccanismo di rivalutazione ha un impatto strutturale: una riduzione oggi comporta un valore più basso su cui calcolare gli adeguamenti futuri. È una spirale discendente che, con il passare del tempo, impoverisce i pensionati.

Un’iniquità sempre più evidente

La sentenza n. 19/2025 della Corte Costituzionale sostiene che la riduzione della perequazione non viola i principi di adeguatezza e proporzionalità. Tuttavia, questa posizione sembra contraddire precedenti affermazioni della stessa Corte, che aveva sottolineato come il trattamento pensionistico debba garantire un livello di vita dignitoso. Negli anni '80 e '90, la Corte ribadiva che la pensione è una prosecuzione della retribuzione e non può essere soggetta a interventi arbitrari. Oggi, invece, sembra che questo principio venga sacrificato sull’altare dell’“emergenza finanziaria permanente”. Un’emergenza che, è bene ricordarlo, non è certo colpa dei pensionati, che hanno sempre versato tasse e contributi quando erano in attività e continuano a pagare l’Irpef ai livelli più alti, senza poter accedere ai benefici di cui godono altri cittadini, specie quelli che hanno praticato l’elusione e l’evasione fiscale.  

Un precedente pericoloso per il futuro

Questa decisione della Corte apre un pericoloso precedente: se la perequazione può essere sospesa o ridotta ogni volta che lo Stato ha bisogno di risorse, quali garanzie abbiamo per il futuro? Per l’integrità delle nostre pensioni?  Speravamo in un’inversione di tendenza nella giurisprudenza costituzionale, un segnale di stop a questa prassi ormai consolidata. Ma la realtà è un’altra: il meccanismo continua a ripetersi, aggravando le disuguaglianze tra pensionati. C’è il rischio addirittura che si vada verso una rivalutazione differenziata tra pensionati con trattamenti calcolati con il sistema retributivo e quelli con il sistema contributivo, introducendo così un’ulteriore discriminazione strutturale. Speriamo di essere in errore e di aver frainteso la lettura della sentenza.

Un monito al legislatore

La Corte, pur riconoscendo ampia discrezionalità al legislatore nel determinare la perequazione, lascia aperta una possibilità. Dice: "Nulla esclude, peraltro, che il legislatore possa tener conto della perdita subita, nel calibrare la portata di eventuali successive misure incidenti sull’indicizzazione dei trattamenti pensionistici". Sembra un invito a strutturare eventuali futuri interventi in modo da non aggravare ulteriormente la perdita di potere d’acquisto dei pensionati. 
Ugualmente appare importante il richiamo che la sentenza fa all’audizione della Corte dei Conti sul bilancio di previsione per l’anno finanziario 2023, quando segnala i vantaggi che deriverebbero da una «disciplina più stabile e rigorosa» del meccanismo di perequazione delle pensioni.  E continuando, quasi a insistere sulla strada da seguire, richiama l’art. 1, comma 478, della legge n. 160 del 2019 dove la stabilità è indicata appunto nel meccanismo a tre scaglioni di rivalutazione: 100%, 90%, 75%. Insomma una regola strutturale che il legislatore non dovrebbe modificare in futuro “per gli effetti benefici sui comportamenti di spesa delle famiglie incidendo sulle aspettative circa il loro reddito disponibile futuro.” (Corte dei Conti, cit.). Che è quello che noi pure ci affanniamo a richiedere da anni.  Purtroppo, di richiami simili ne abbiamo letti in molte sentenze, ma continuano a restare inascoltati.

La battaglia non è finita. 

Nonostante questa decisione, il tema della giustizia previdenziale rimane aperto. Senza una riforma strutturale, la perequazione rischia di trasformarsi in una concessione discrezionale, subordinata alle esigenze di consenso elettorale delle forze politiche al governo. La battaglia per il riconoscimento di un diritto non può fermarsi qui. Come evidenziato anche dal comunicato di CIDA, riportato in questa Rivista, sotto il titolo Pensioni, il ceto medio paga da anni: Cuzzilla (CIDA) chiede un confronto al Governo, è fondamentale avviare un confronto con il Governo per individuare misure compensative e garantire equità nel sistema pensionistico. Non si può continuare a sacrificare il potere d’acquisto dei pensionati per esigenze di bilancio. Solo dei pensionati.  Se questa logica dovesse proseguire, il rischio sarebbe quello di minare ulteriormente la fiducia dei cittadini nel sistema previdenziale e fiscale, con conseguenze gravi per la coesione sociale.
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