Albrecht Dürer e il Rinascimento fra Germania e Italia
Questa volta partiamo dalla fine della storia. Partiamo da quel 1528 che vide spegnersi il più grande artista e teorico dell’arte che la Germania avesse avuto fino ad allora e che rimase tale ancora per molti anni a venire.
Silvia Bolzoni
Perché la grandezza di Dürer, al contrario di tanti altri, venne riconosciuta da subito, lui ancora in vita, dai contemporanei e nessuno meglio del suo migliore amico, Willibald Pirckheimer, seppe tramandare la fama giustamente meritata, facendo incidere sulla lapide quelle poche parole che lo consacrarono definitivamente al regno dei Grandi: “Ciò che di mortale fu di Albrecht Dürer riposa in questa tomba”.
Personaggio dalle mille sfaccettature e interessi, poliedrico nella realizzazione del suo pensiero che poteva declinarsi con colori, bulini o parole, nell’ultima parte della sua vita si dedicò a scrivere trattati d’arte e matematica per dimostrare che il buon artista non era solo un mero artigiano, ma necessitava di un solido bagaglio culturale, tecnico e filosofico. Nobilitare la figura dell’artista e renderlo appieno un uomo in grado di confrontarsi con il suo tempo fu quindi una delle sue missioni, condivisa con l’amico Pirckheimer, storico e filologo, figura di spicco nella Norimberga del tempo, fucina di talenti per la Germania, che vedeva all’opera altri due pittori, Hans Baldung Grien e Lucas Cranach. Furono questi tre artisti a portare davvero la cultura tedesca in Europa.
Nonostante la differenza di credo religioso, dopo la conversione di Dürer alla dottrina Luterana e il ritorno invece di Pirckheimer in seno alla Chiesa di Roma, i due continuarono a scriversi, a scambiarsi idee ed opinioni in un clima culturale che non poteva essere limitato dalle diatribe allora imperversanti in Europa. Da poco più di dieci anni Lutero aveva scatenato l’inferno della lotta religiosa che avrebbe insanguinato il continente per più d’un secolo, ma i sentori e i movimenti riformati serpeggiavano da ben prima.
Lo stesso Dürer ne era ben consapevole, osservatore attento delle vicende politiche e sociali del suo tempo, prima di quel fatidico 1517 che vide il cattolicesimo spaccarsi nuovamente e per sempre. Nel 1513 aveva licenziato una delle sue stampe più celebri: “Il cavaliere, il diavolo e la morte”. L’incisione a bulino mostra un cavaliere che avanza sicuro, protetto dalla sua armatura di fede, in una gola rocciosa abitata dai più grandi nemici dell’uomo: si è già lasciato alle spalle il demonio, inciso nell’aspetto di animale fantastico e cornuto, e nemmeno degna di uno sguardo la morte che tenta di spaventarlo poggiando sulla criniera del cavallo una clessidra a monito della vita rimastagli. Tra le infinite interpretazioni dell’opera, in molti vi hanno scorto anche la crisi del Cattolicesimo, insidiato dalle lusinghe del potere e della ricchezza.
L’abilità dell’incisore si mostra nei dettagli naturalistici, nella ricchezza dei particolari, nella resa atmosferica del secondo piano, che lascia la città, lontana sul picco, come avvolta da un velo di nebbia. Erasmo considerava Dürer persino superiore al mitico pittore greco Apelle poiché quest’ultimo era aiutato dai colori laddove il suo contemporaneo, con il solo uso delle linee riusciva a conferire ombre, luci e profondità ai suoi disegni.
Non mancava mai di apporre la sua firma: il celebre monogramma con le iniziali A e D, importante per Dürer come legittimazione dell’individualità dell’artista, sarà sia uno dei dettagli che lo renderanno tanto riconoscibile quanto falsificato.
Ancor più dell’incisione del cavaliere, il suo autoritratto del 1500 come “Salvator mundi” creò tante polemiche tra le fila del clero, che videro un atto di arroganza in quel suo ritrarsi così simile a Cristo. Il pittore voleva invece mostrare come tutti gli uomini potessero, anzi, somigliassero al figlio di Dio fatto uomo, anticipando quei sentimenti di contatto diretto con la divinità, di dialogo personale con Dio che saranno alla base proprio della Riforma protestante.
Il celebre autoritratto apre le porte all’analisi dell’attività pittorica che Dürer protrasse fino alla fine della propria carriera, anche se – come ebbe modo di dire lui stesso – l’arte grafica era più affine alla sua personalità, più partecipe della natura del suo pensiero e alla base della storia del suo essere artista: il padre infatti era orafo, da lui apprese i primi rudimenti all’arte dell’incisione, e il periodo di apprendistato presso la bottega del più importante stampatore di Norimberga, Wolgemuth, si “incise” a sua volta nella personalità artistica di Albrecht.
Ma la sete di conoscenza e la curiosità non potevano trattenerlo dal confrontarsi con la grande pittura, quella fiamminga e soprattutto quella italiana, dopo i viaggi che intraprese tra gli anni ’90 del Quattrocento e il primo decennio del secolo successivo. In questi viaggi, soprattutto durante il soggiorno veneziano, gli si aprì un mondo ancora ignoto agli artisti d’oltralpe, quello della classicità, dell’umanesimo italiano, dove miti ed eroi sembravano tornati vivi.
Non si potrebbe spiegare altrimenti un quadro come la “Festa del Rosario”, dipinto per la chiesa di San Bartolomeo a Rialto nel 1506, durante il secondo viaggio in Italia. La pala, commissionata dalle confraternite di mercanti delle città tedesche, rappresenta bene il momento in cui due delle maggiori scuole europee si fondono nell’opera di uno solo. Assorbì le suggestioni dell’arte veneta nella composizione monumentale e piramidale con il trono della Vergine al centro, rielaborazione di modelli già di Giovanni Bellini, e le fuse con il luminoso cromatismo nordico, una luce quasi abbagliante che permette di indagare l’accurata resa dei dettagli e delle fisionomie, veri e propri ritratti.
Il celebre autoritratto apre le porte all’analisi dell’attività pittorica che Dürer protrasse fino alla fine della propria carriera, anche se – come ebbe modo di dire lui stesso – l’arte grafica era più affine alla sua personalità, più partecipe della natura del suo pensiero e alla base della storia del suo essere artista: il padre infatti era orafo, da lui apprese i primi rudimenti all’arte dell’incisione, e il periodo di apprendistato presso la bottega del più importante stampatore di Norimberga, Wolgemuth, si “incise” a sua volta nella personalità artistica di Albrecht.
Ma la sete di conoscenza e la curiosità non potevano trattenerlo dal confrontarsi con la grande pittura, quella fiamminga e soprattutto quella italiana, dopo i viaggi che intraprese tra gli anni ’90 del Quattrocento e il primo decennio del secolo successivo. In questi viaggi, soprattutto durante il soggiorno veneziano, gli si aprì un mondo ancora ignoto agli artisti d’oltralpe, quello della classicità, dell’umanesimo italiano, dove miti ed eroi sembravano tornati vivi.
Non si potrebbe spiegare altrimenti un quadro come la “Festa del Rosario”, dipinto per la chiesa di San Bartolomeo a Rialto nel 1506, durante il secondo viaggio in Italia. La pala, commissionata dalle confraternite di mercanti delle città tedesche, rappresenta bene il momento in cui due delle maggiori scuole europee si fondono nell’opera di uno solo. Assorbì le suggestioni dell’arte veneta nella composizione monumentale e piramidale con il trono della Vergine al centro, rielaborazione di modelli già di Giovanni Bellini, e le fuse con il luminoso cromatismo nordico, una luce quasi abbagliante che permette di indagare l’accurata resa dei dettagli e delle fisionomie, veri e propri ritratti.
Il grande merito di Dürer dunque, come Uomo del Rinascimento, fu proprio
questo: unire due tradizioni lontane e rinnovarle, voler essere
italiano, rimanendo tedesco.
L'incontro si terrà in ALDAI
sala Viscontea Sergio Zeme - via Larga 31 - Milano
giovedì 15 marzo 2018 alle ore 17,00
Per prenotazioni vedi box a pagina 47.
L'incontro si terrà in ALDAI
sala Viscontea Sergio Zeme - via Larga 31 - Milano
giovedì 15 marzo 2018 alle ore 17,00
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01 febbraio 2018