L’imponderabile “leggerezza” della pensione
L’insostenibile “leggerezza” delle pensioni previdenziali a fronte delle sempre più onerose esigenze della finanza pubblica e del welfare sociale, e la diffusa sottostante cultura che deprime il merito, sono argomenti che domandano adeguate riflessioni
Antonio Dentato
In un momento difficile della vita sociale del nostro Paese (e non solo: dobbiamo dire del mondo), le annotazioni che seguono hanno valore marginale. È l'assedio del contagio da Covid-19, nella sua potenza ed estensione, che deve maggiormente occuparci e preoccuparci. A respingere questo oscuro nemico dobbiamo concentrare i nostri maggiori sforzi e attenzione.
Perciò a commento della Sentenza della Corte Costituzionale n. 234/2020 del 22/10/2020 che ha deciso sui ricorsi contro le disposizioni riduttive imposte dall’art.1 commi 260 - 268 della legge n.145/2018 ci limitiamo all’essenziale. Per la sintesi diremo che: la Sentenza ha respinto i ricorsi dei pensionati e ha dichiarato legittimo il “raffreddamento della perequazione” in quanto “ragionevole e proporzionato”; ha dichiarato legittimo anche il “contributo di solidarietà”, giustificato da “un’emergenza sanitaria di vaste dimensioni, che, incidendo pesantemente sul quadro macroeconomico, abbatte i flussi contributivi e accentua gli squilibri sistemici”. Il contributo, comunque, durerà solo 3 anni (2019-2021), non 5 (2019-2023) come detto nella legge n.145/2018. Questo in rispetto della tendenza dell’ordinamento a non proiettare “valutazioni e determinazioni” al di là dell’orizzonte triennale dell’ordinaria programmazione del bilancio dello Stato. Non è molto rispetto alle nostre attese, ma è qualcosa; l’unico risultato positivo che possiamo registrare.
Confidiamo negli specialisti del diritto: che ci aiutino a leggere e capire passaggi importanti della Sentenza n.234/2020 dove si legittimano i provvedimenti che sottraggono soldi dalle tasche dei pensionati (Legge n.145 del 30 dicembre 2018, commi 260 e 261) per destinarli ad un «Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato» (comma 265) presso gli enti previdenziali; ma gli obiettivi sono stati definiti dopo. E importante capire, inoltre se anche questa Sentenza, come le precedenti, debba trovare spiegazione nella costituzionalizzazione del principio dell’equilibrio di bilancio; al riguardo, nella dottrina giuridica, si discute del ruolo che stanno giuocando le politiche di austerità attuate (almeno questa è la sensazione) come variabili indipendenti rispetto alla tutela dei diritti costituzionali; e se, pertanto, anche questa Sentenza debba trovare collocazione in quella che viene definita “la giurisprudenza della crisi”. Argomenti da tenere nella giusta evidenza, quando le nostre Rappresentanze decideranno di far valere le ragioni dei pensionati al tavolo della politica. A questo fine, vale a dire per contribuire al dibattito che al riguardo, sicuramente, esse vorranno promuovere, ci sforzeremo qui di seguito di formulare qualche considerazione preliminare.
Una politica di erosione
La prima. Tra le riflessioni non può mancare il richiamo al percorso che hanno avuto le politiche previdenziali espansive che accompagnarono la crescita economica nel dopoguerra. Politiche fatte per rilanciare l’economia del Paese; seguite, negli anni successivi, da Riforme riduttive che hanno eroso, e continuano a frantumare il sistema previdenziale, con particolare riguardo alle pensioni, fragili presìdi alle esigenza della vecchiaia. Fragili, perché resi incerti dagli eventi che, nel tempo, modificano le visioni dei Governi. Ci riferiamo a quelle Riforme che innescarono un “processo sequenziale” di interventi ispirati a politiche di contenimento dei costi. Processo nel quale registriamo aggiustamenti, ma soprattutto cambiamenti rilevanti delle regole e delle logiche di funzionamento del sistema pensionistico.
La seconda. In questo processo vanno lette anche le Pronunce della Corte Costituzionale. L’ultima, la n.234/2020, di cui parliamo, afferma che il ripetersi delle misure [di solidarietà] fa “emergere l’esistenza di una debolezza sistemica, difficilmente governabile per il tramite di interventi necessariamente temporanei, per di più operati soltanto sui redditi pensionistici, «ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro»”. Un riconoscimento importante, va dato atto, che ribadisce la giurisprudenza costante della Corte, quando ha “ammonito” i Governi a non eccedere con provvedimenti riduttivi delle pensioni perché “…le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”. (V. Sentenza 316/2010 e richiami alle sentenze n.ri: 372/1998, 62/1999,256/2001,531/2002,30/2004, altre). Moniti, richiami, avvertimenti. E, come tali, tuttavia, puntualmente disattesi dai Governi che, anzi, quando si si sono trovati e si trovano a fronteggiare esigenze immediate, non si fanno scrupoli a prelevare soldi dalle tasche dei pensionati. Dalla Corte, moniti severi al legislatore a non tirare troppo la corda con provvedimenti riduttivi dei redditi pensionistici. Dal legislatore di turno nessuna remora: insistente nel ridurre le pensioni, sempre le stesse. Aggrappati a questi criteri, ma soprattutto indifferenti ai richiami di costruire un sistema che eviti continui ricorsi alle casse previdenziali per ogni esigenza eccezionale e moderare, quindi, la frequenza di misure riduttive, i Governi succedutesi nei decenni hanno proseguito nelle politiche di erosione delle pensioni. Più recentemente hanno interpretato le Pronunce costituzionali da una parte come correttive di alcuni squilibri sociali nel quadro della cosiddetta «giurisprudenza della crisi», e dall’altro come l’evoluzione del bilanciamento dei princìpi e dei valori costituzionali. (V. Relazione introduttiva Proposta di legge n. 1071, presentata dalle forze parlamentari che sostenevano il Governo pro-tempore nel periodo 1/06/2018 - 5 /9/2019).
Strumenti per tagliare le pensioni
Per ridurre le pensioni i Governi si sono esercitati nell’applicazione di due strumenti: 1) il c.d.” contributo di solidarietà “; 2) la sospensione o modifica in peggio del sistema di perequazione (adeguamento della pensione al costo della vita). Esercizi talmente ben riusciti da essere utilizzati, a volte, anche contemporaneamente, come ad es. nel caso della situazione in atto, determinata dalla legge n.145/2018 di cui parliamo. Provvedimenti giustificati ogni volta – nelle motivazioni politiche - come “misure di equità sociale”, sopportabili, tenuto conto della modesta percentuale di riduzione nel confronto con l’ammontare dei singoli trattamenti pensionistici. Ma, come ha detto qualcuno: è la somma che fa la differenza.
La somma
La somma sta nella quantità di provvedimenti che hanno colpito i redditi dei pensionati. Strumenti ripetuti anche a breve distanza di tempo l’uno dall’altro; strumenti che hanno colpito più volte le stesse persone: specialmente i più anziani, di 80-90 anni.
Il contributo di solidarietà è stato applicato 9 (nove) volte, in poco meno di 50 anni. Da notare, in particolare che, a partire dal 2000, è stato applicato per ben 7 (sette) volte (ma uno, per 6 anni - 2012/2017 - a esclusivo carico degli iscritti agli ex fondi volo, ferrovieri, telefonici, elettrici, ferrotranvieri, Inpdai, tutti confluiti nell’INPS). Considerato il ripetersi, a ritmo continuo, di questi provvedimenti si può dire che il c.d. “contributo di solidarietà” rappresenta ormai un ulteriore incremento di tasse a carico di una minoranza sociale (intorno ai 30/40mila persone); anziani, molti ultra 80enni, che si vedono caricati di un’imposta aggiuntiva sui loro redditi; al riguardo è stato autorevolmente osservato che, sia pure formalmente fuori dal perimetro dell’Irpef, questi provvedimenti operano come l’Irpef e con questa s’intrecciano. (Cfr. Corte dei Conti: Rapporto 2014 sul coordinamento della finanza pubblica).
Il sistema di perequazione è stato oggetto di interventi modificativi per ben 8 (otto volte) in poco meno di 50 anni. Ma, a partire dal 2000, queste misure sono divenute incalzanti: sono state applicate per ben 5 (cinque) volte. Se si si tiene conto, ad es., che i due recenti blocchi si sono succeduti rapidamente, possiamo dire che, tra sospensione e modifiche peggiorative, la contrazione delle pensioni ormai dura da 10 (dieci) (2012/2021). (V. Ordinanza Corte dei Conti per il Friuli Venezia Giulia del 17 ottobre 2019, n.6). Aggiungiamo un’altra considerazione con riferimento agli effetti dei due provvedimenti: a) il contributo di solidarietà: finito il periodo di applicazione (di solito 3 anni) l’ammontare lordo della pensione non è intaccato; b) il blocco o le modifiche in peggio della perequazione determinano effetti riduttivi permanenti, incidono sull’ammontare lordo della pensione. E scatta il cosiddetto “effetto trascinamento” nel senso che la perdita annuale si aggiunge alle perdite precedenti; si ripercuote sulla pensione, anno su anno, vita natural durante del pensionato. Gli effetti trascinamento si ripercuoteranno anche sull’eventuale pensione di reversibilità, nel senso che questa partirà da una base più ridotta. In soldoni: oggi, un lavoratore, pensionato dal 2000, per effetto delle successive mancate o parziali indicizzazioni, ha perso in termini reali oltre il 13% del valore della pensione. Un pensionato dal 2008 ha perso oltre l’8% del valore della pensione. (V. in questa Rivista, 1 novembre 2020, M. Schianchi, “Parliamo di Pensioni”). Ormai solo le pensioni “complessivamente pari o inferiori a quattro volte il minimo INPS” (poco più di 2.000 euro/mese) beneficiano della rivalutazione automatica al 100% (V. Art. 1, comma 477, della legge n. 160/2019), i restanti trattamenti beneficiano di incrementi inversamente proporzionali al loro ammontare. Quelli superiori a sei volte, in alcuni casi, non sono stati rivalutati o hanno ricevuto incrementi simbolici.
La differenza
La differenza sta nel criterio di valutazione dei provvedimenti adottati.
Il criterio del “bilanciamento” fa ritenere costituzionalmente legittimi questi provvedimenti. Infatti ogni intervento è giudicato singolarmente, non in rapporto ai provvedimenti precedenti che già hanno inciso sulle pensioni; …ogni misura di blocco o limitazione della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici è giudicata “nella sua singolarità e in relazione al quadro storico in cui si inserisce" (Cfr: Sent. Cost. n.234/2020 punti n. 15.4.2 n. 18.12 e Sent. n. 250/2017).
Anche questa volta, quindi, è l’ultimo provvedimento quello messo sui piatti della “bilancia”: da un lato le rilevanti e onerose esigenze della finanza pubblica, dall’altro le riduzioni delle pensioni. Riduzioni valutate “leggere”, modeste, a fronte di trattamenti di importo più alto che presentano “maggiori margini di resistenza” rispetto “agli effetti dell’inflazione» (Sent. n.234/2020 e richiamo a Sent. n. 250/2017).
La questione è politica
A difendere i nostri diritti ed interessi, rispetto alla numerosità e all’estensione temporale dei provvedimenti che alleggeriscono le pensioni, ovviamente, ci rivolgiamo ai giudici. Come ultimo rimedio di tutela e con riferimento, ogni volta, a singoli provvedimenti. Ma è la stessa Sentenza n.234/2020 che ci indirizza a valutare la questione di fondo. Nella Sentenza, oltre alle decisioni che, certo, ci offrono solo qualche modesta soddisfazione, dobbiamo leggere soprattutto quello che dice a proposito della debolezza del sistema previdenziale che è causa prima dell’intensificarsi di interventi riduttivi sui redditi dei pensionati. Interventi “a ridurre” giustificati come sistemi di "raffreddamento” della perequazione automatica. Un “raffreddamento”, però, di cui non se ne sentiva nessuna impellente esigenza, visto che “nel periodo considerato l’inflazione è stata marginale e che le previsioni indicano addirittura una situazione di tipo deflazionistico (V.Sent.n.234/2020 punto 15.4.2, ultimo cpv). L’obiettivo è stato dunque solo quello di procurare, in maniera facile e immediata, risorse occorrenti per fronteggiare le tante e crescenti esigenze sociali.
La questione è, pertanto, interamente politica. Ed è nell’ambito della politica che occorre trovare la soluzione. Perché qui, nella politica, si è fatta spazio la cultura del demerito, per cui i più vecchi, in quanto fuori dal processo produttivo, possono essere accantonati; e, ai fini della pensione, non hanno più valore e significato: l’impegno spiegato, le responsabilità ricoperte, i cospicui contributi versati e i livelli di aliquote fiscale sopportate durante gli anni di lavoro e proseguite in quelli della pensione.
L’insostenibile “leggerezza” delle pensioni previdenziali a fronte delle sempre più onerose esigenze della finanza pubblica e del welfare sociale, e la diffusa sottostante cultura che deprime il merito, sono argomenti che domandano adeguate riflessioni, da mettere in evidenza quando si aprirà il dibattito sulla Sentenza Cost.n.234/2020, da cui siamo partiti nello scrivere questo articolo.
01 dicembre 2020