In medio stat virtus

Dalla lettura dei dati del Rapporto CIDA-Censis, “Il valore del ceto medio per l’economia e la società”, emerge l’urgenza di intervenire su stipendi, fisco e welfare sanitario e previdenziale

Stefano Cuzzilla 

Presidente Federmanager

Nell’epoca degli equilibri fragili, non è consentito rimanere in bilico. Bisogna schierarsi e io intendo farlo in modo chiaro, dichiarandomi dalla parte del ceto medio.

Quando parlo di ceto medio mi riferisco alla stragrande maggioranza degli italiani, né ricchi né indigenti, che lavora, contribuisce alla sostenibilità del sistema anche quando arriva alla pensione, paga le tasse e si impegna per le imprese, i territori e le comunità. Per il nostro Paese, quindi, è proprio il caso di dirlo, in medio stat virtus.

A favore di questa maggioranza intendo lavorare perché oggi il ceto medio è in difficoltà e sta esprimendo un grido d’allarme che rischia di rimanere inascoltato.

Abbiamo discusso di tale condizione di rischio lo scorso 20 maggio alla Camera dei Deputati presentando il Rapporto CIDA-Censis, Il valore del ceto medio per l’economia e la società, a cui è intervenuto il Vicepremier e Ministro degli Esteri, Antonio Tajani, oltre ad autorevoli rappresentanti parlamentari: Paolo Barelli, Maria Elena Boschi, Antonio Misiani, Annarita Patriarca e Marta Schifone.

Nel corso dell’evento, abbiamo offerto una fotografia di quello che il Censis ha definito il “declassamento” del ceto medio, vale a dire un progressivo impoverimento a cui corrispondono aspettative pessimistiche verso il futuro. Tale declassamento procede a un ritmo accelerato e rischia di spazzare via le conquiste di benessere e prosperità costruite in decenni.

Basta riflettere sul fatto che l’incidenza di povertà individuale tra chi lavora ha avuto un incremento di 2,7 punti percentuali, passando dal 4,9% nel 2014 al 7,6% del 2023. Questo dipende anche dal fatto che gli stipendi italiani sono bassi, troppo bassi e da troppo tempo.
Le conseguenze sui nuclei familiari sono dirette: in un ventennio, dal 2001 al 2021, il reddito pro capite delle famiglie italiane è sceso di 7,7 punti, mentre la media europea saliva di quasi dieci, con le famiglie tedesche a +7,3% e quelle francesi a +9,9%.

Più o meno nello stesso intervallo di tempo, la variazione reale del nostro PIL è stata del 5,3% contro la media europea di oltre il 30.

Siamo chiaramente di fronte a un passaggio epocale di modello socioeconomico. E se più del 76% degli italiani ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali, se 6 intervistati su 10 affermano che il proprio tenore di vita sta calando, siamo anche di fronte a una perdita di fiducia.

Da manager, sento il compito di offrire soluzioni per invertire questa tendenza. Vogliamo lavorare al fianco delle istituzioni per un impianto fiscale che non mortifichi chi lavora né chi è oggi in pensione e per un welfare sanitario e previdenziale davvero sostenibile.

Si tratta di una sfida che richiede strategie di risposta a lungo termine, basate sul convincimento che formazione e competenze siano la nostra risorsa primaria.

Articolo tratto da Progetto Manager
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